L’amore è una realtà meravigliosa,

è l’unica forza che può veramente trasformare il cosmo, il mondo!

(Benedetto XVI)



giovedì 5 febbraio 2015

Amore. Un percorso filosofico

(Remo Bodei, da: Dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano, Utet 1998, pp. 25-36)
I significati che questo termine presenta nel linguaggio comune sono molteplici, disparati e contrastanti; e altrettanto molteplici, disparati e contrastanti sono quelli che esso presenta nella tradizione filosofica. Cominceremo con l'accennare agli usi più correnti del linguaggio comune, per selezionarli e ordinarli e servircene come criterio per selezionare e ordinare gli usi filosofici del termine stesso: 
a) in primo luogo con la parola A. si designa il rapporto inter-sessuale, quando questo rapporto è selettivo ed elettivo ed è perciò accompagnato dall'amicizia e da affetti positivi (sollecitudine, tenerezza, ecc.). Dall'A. in questo senso si distinguono spesso le relazioni sessuali a base puramente sensuale, che sono fondate non già sulla scelta personale ma sull'anonimo ed impersonale bisogno di rapporti sessuali. Spesso però lo stesso linguaggio comune estende anche a questo tipo di rapporti la parola A., come quando si dice «fare all'A.»; 
b) in secondo luogo la parola A. designa una vasta gamma di rapporti inter-personali; come quando si parla dell'A. dell'amico per l'amico, del padre per il figlio o reciprocamente, dei cittadini tra di loro, dei coniugi tra di loro; 
c) in terzo luogo si parla dell'A. per cose od oggetti inanimati: per es., l'A. del denaro, dei quadri, dei libri, ecc.;
d) in quarto luogo si parla dell'A. per oggetti ideali: per es., l'A. della giustizia, del bene, della gloria, ecc.; 
e) in quinto luogo si parla dell'A. per attività o forme di vita: A. del lavoro, della propria professione, del gioco, del lusso, del divertimento, ecc.; 
f) in sesto luogo si parla di A. per comunità o enti collettivi: per es., A. di patria, A. di partito, ecc.; 
g) in settimo luogo si parla di A. del prossimo e di A. di Dio.
Indubbiamente alcuni di questi significati si possono eliminare come impropri perché possono essere espressi e designati più esattamente da altre parole. Così: a) per ciò che riguarda il rapporto inter-sessuale lo si può designare come A. solo quando esso è a base elettiva e implica l'impegno personale reciproco. Si potrà così evitare di designare come «A.» il rapporto sessuale occasionale o anonimo. Per ciò che concerne gli usi indicati sotto c) (cioè A. di oggetti inanimati), è chiaro che qui la parola «A.» sta per desiderio di possesso, quando tale desiderio raggiunge la forma dominante della passione. E per ciò che concerne gli usi indicati sotto d) (A. di oggetti ideali) è anche chiaro che la parola «A.» sta qui per indicare un certo impegnomorale atto a segnare limiti e condizioni all'attività dell'individuo. Infine per ciò che riguarda e) (A. di attività, ecc.) la parola «A.» sta ad indicare un certo interesse più o meno dominante, cioè più o meno incorporato nella personalità dell'individuo, o addirittura una «passione».
Si possono quindi prendere in considerazione, come significati propri e irriducibili della parola «A.» gli usi indicati sotto a), b), f), g). Questi usi rivelano subito certe affinità di significato, e cioè: 
1° l'A. designa, in ogni caso un tipo specifico di rapporti umani, caratterizzato dalla solidarietà e dalla concordia degli individui che ne partecipano; 
2° il desiderio, e in particolare il desiderio di possesso, non entra necessariamente a costituire l'A., giacché, se è discutibile che entri nell'A. sessuale, si deve escludere senz'altro che entri comunque nell'A. di cui alle lettere b), f), g); 
3° il carattere specifico della solidarietà e della concordia costitutivi dell'A. non può essere determinato una volta per tutte giacché esso è diverso a seconda delle forme o delle specie diverse dell'A. ed implica anche gradi diversi di intimità, di intrinsichezza e di forma emotiva. Per es., l'A. tra uomo e donna o quello tra padre e figlio o quello tra cittadini o quello tra uomini che si considerano l'un l'altro come «prossimo», hanno differenti basi biologiche, culturali e sociali e non si lasciano ricondurre a uno stesso tipo o forma di solidarietà, di concordia e di compartecipazione emotiva. Bisognerà pertanto tenere presente questa diversità nella considerazione dell'uso che i filosofi hanno fatto del termine, giacché spesso quest'uso si modella su uno o più tipi particolari di esperienza amorosa.
I Greci
I Greci videro nell'A. soprattutto una forza unitiva e armonizzatrice e la intesero sul fondamento dell'A. sessuale, della concordia politica e dell'amicizia. Secondo Aristotele (Met., I, 4, 984 b 23 sgg.), Esiodo e Parmenide furono i primi a suggerire che l'A. è la forza che muove le cose e le porta e le mantiene insieme. Empedocle riconobbe nell'A. la forza che tiene uniti i quattro elementi e nella discordia la forza che li separa: il regno dell'A. è lo sfero, la fase culminante del ciclo cosmico, nella quale tutti gli elementi sono legati nella più completa armonia. In questa fase non c'è né il sole, né la terra, né il mare perché non c'è altro che un tutto uniforme, una divinità che gode della sua solitudine (Fr. 27. Diels). 
Platone ci ha data la prima trattazione filosofica dell'A.: da essa vengono assunti e conservati i caratteri dell'A. sessuale; e nello stesso tempo tali caratteri vengono generalizzati e sublimati. 
In primo luogo, l'A. è mancanza, insufficienza,bisogno e nello stesso tempo desiderio di acquistare e conservare ciò che non si possiede (Conv., 200 a, sgg.). 
In secondo luogo l'A. si dirige verso la bellezza la quale non è altro che l'annuncio e l'apparenza del bene, ed è quindi desiderio del bene (Ibid., 205 e). 
In terzo luogo l'A. è desiderio di vincere la morte (com'è dimostrato dall'istinto di generare proprio di tutti gli animali) ed è quindi la via attraverso la quale l'essere mortale cerca di salvarsi dalla mortalità, non rimanendo sempre lo stesso, come fa l'essere divino, ma lasciando dopo di sé in cambio di ciò che invecchia e muore, qualcosa di nuovo che gli somiglia (Ibid., 208 a, b). 
In quarto luogo, Platone distingue tante forme dell'A. quante sono le forme del bello, a cominciare dalla bellezza sensibile e a finire alla bellezza della sapienza, che è la più alta di tutte e il cui A., cioè la filosofia, è quindi il più nobile (Ibid., 210 a, sgg.). Il Fedro è diretto appunto a mostrare la via' attraverso la quale l'A. sensibile può diventare amor di sapienza, cioè filosofia, e il delirio erotico diventare una virtù divina, che allontana dai modi di vita consueti e impegna l'uomo alla difficile ricerca dialettica (Fedro, 265 b, sgg.). 
Questa dottrina platonica dell'A., mentre contiene gli elementi di un'analisi positiva del fenomeno, offre anche il modello di una metafisica dell'A. che doveva varie volte essere ripresa nella storia della filosofia. 
Aristotele si ferma, invece, alla considerazione positiva dell'amore. Per lui l'A. o è l'A. sessuale o è l'affetto tra consanguinei o tra persone comunque congiunte da un rapporto solidale, o è l'amicizia. In generale l'A. e l'odio come tutte le altre affezioni dell'anima, appartengono non all'anima come tale ma all'uomo in quanto è composto di anima e corpo (De An., I, 1, 403 a, 3) e pertanto vengono meno col venir meno della unione di anima e corpo (Ibid., I, 4, 408 b, 25). Aristotele inoltre riconosce all'A. quel fondamento di bisogno, imperfezione o deficienza, sul quale Platone aveva insistito. La divinità, egli dice, non ha bisogno di amicizia giacché essa è il suo proprio bene a se stessa, mentre a noi il bene viene da altro (Et. Eud., VII, 12, 1245 b 14). L'A. è quindi un fenomeno umano e non c'è da meravigliarsi che di esso Aristotele non faccia alcun uso nella sua teologia. Esso è un'affezione, cioè una modificazione passiva, mentre l'amicizia è un abito, cioè una disposizione attiva (Et. Nic., VIII, 5, 1157 b 28). All'A. si congiunge la tensione emotiva e il desiderio: nessuno è preso da A. se non sia stato prima colpito dal godimento della bellezza; ma questo godimento di per sé non è ancora A., che si ha soltanto se si desidera l'oggetto amato quando è assente e se lo si brama quando è presente (Ibid., IX, 5, 1167 a 5). L'A. che è legato al piacere può cominciare e finire rapidamente ma può anche dar luogo alla volontà di vivere insieme; e in questo caso assume la forma dell'amicizia (Ibid., VIII, 3, 1156 b 4). Se l'analisi aristotelica dell'A. è priva di riferimenti metafisici e teologici, bisogna ricordare che l'ordinamento finalistico del mondo e la teoria del primo motore immobile conducono Aristotele a dire che Dio, come primo motore, muove altre cose «come oggetto d'A.», cioè come termine del desiderio che le cose hanno di raggiungere la perfezione di lui (Met., XII, 7, 1072 b 3). Questa notazione sarà largamente adoperata dalla filosofia medievale. Sul finire della filosofia greca il neoplatonismo ha adoperato la nozione dell'A. non già per definire la natura di Dio, ma per indicare una delle fasi della via che conduce a Dio. L'Uno di Plotino non è A. perché è unità ineffabile, superiore alla dualità del desiderio (Enn., VI, 7, 40). Ma l'A. è la via preparatoria che conduce alla visione di esso perché l'oggetto dell'A., secondo la dottrina di Platone, è il bene e l'Uno è il bene più alto (Ibid., VI, 7, 22). L'uno pertanto è il vero termine e l'oggetto ultimo e ideale di ogni A., per quanto non attraverso l'A. l'uomo si congiunge a Lui, ma attraverso una intuizione, una visione, in cui il veggente e il veduto si fondono e si unificano (Ibid., VI, 9, II).
Il Cristianesimo
Col Cristianesimo la nozione dell'A. subisce una trasformazione; da un lato esso viene inteso come un rapporto o un tipo di rapporti che si deve estendere ad ogni «prossimo ; dall'altro lato esso si trasforma in un comando, che non ha connessioni con le situazioni di fatto e che si propone di trasformare queste situazioni e di creare una comunità che non esiste ancora ma che dovrà rendere tutti gli uomini come fratelli: il regno di Dio. L'A. del prossimo diventa il comando della non-resistenza al male (Matt., 5, 44); e la parabola del buon Samaritano (Luc., 10, 29 sgg.) tende a definire l'umanità cui l'A. deve dirigersi, non nel suo senso composto, ma nel suo senso diviso, come ogni persona con la quale ciascuno venga a contatto; la quale proprio come tale fa appello alla sollecitudine e all'A. del cristiano. Inoltre, nella concezione cristiana, Dio stesso risponde con l'A. all'A. degli uomini, perciò il suo attributo fondamentale è quello di «Padre». 
Le Lettere di S. Paolo, identificando il regno di Dio con la Chiesa e considerando nella Chiesa il «corpo di Cristo» di cui i cristiani sono le membra (Rom., 12, 5 sgg.) fanno dell'A. (agape) che è il vincolo della comunità religiosa, la condizione della vita cristiana. Tutti gli altri doni dello Spirito, la profezia, la scienza, la fede, sono nulla senza di esso. «L'A. sopporta tutto, ha fede in tutto, spera tutto, sostiene tutto... Ci sono ora la fede, la speranza, l'amore, queste tre cose; ma l'amore è la maggiore di tutte» (Cor., 1, 13, 7-13). 
L'elaborazione teologica che il Cristianesimo subì nel periodo della Patristica non ha da principio utilizzata la nozione dell'amore. Nei grandi sistemi della Patristica orientale (Origene, Gregorio di Nissa) la terza persona della Trinità, lo Spirito Santo, è intesa come una potenza subordinata di carattere incerto: di qui, anche, le frequenti dispute trinitarie che il concilio di Nicea (325) non riuscì ad eliminare del tutto. Soltanto per opera di S. Agostino, con l'identificazione dello Spirito Santo con l'A. (mentre Dio Padre è l'Essere e Dio Figlio è la Verità) l'A. viene introdotto esplicitamente nella stessa essenza divina e diventa un concetto teologico, oltre che morale e religioso. L'A. di Dio e l'A. del prossimo si uniscono in S. Agostino quasi a formare un concetto unico. Amare Dio significa amare l'A.; ma, dice Agostino, «non si può amare l'A. se non si ama chi ama». Non è A. quello che non ama nessuno. L'uomo perciò non può amare Dio, che è l'A., se non ama l'altro uomo. L'A. fraterno fra gli uomini non solo deriva da Dio, ma è Dio stesso (De Trin., VIII, 12): è la rivelazione di Dio, in uno dei suoi aspetti essenziali, alla coscienza degli uomini. La nozione dell'A. rimane tuttavia in S. Agostino quella che era per i Greci, una specie di rapporto, unione o vincolo che lega un essere con l'altro: quasi «una vita che unisce tende a unire due esseri, l'amante e ciò che si ama» (Ibid., VIII, 6).
La Scolastica
Le notazioni agostiniane vengono riprese frequentemente lungo tutto lo sviluppo di una delle principali correnti della Scolastica medievale, cioè dell'Agostinismo: da Giovanni Scoto Eriugena a Giovanni Duns Scoto. Scoto Eriugena dice: «L'A. è la connessione e il vincolo dal quale la totalità delle cose è congiunta in amicizia ineffabile e in indissolubile unità... A giusto titolo Dio è detto A., perché egli è causa di A. e l'A. si diffonde attraverso tutte le cose e tutte le raccoglie ad unità e le riconduce al loro ineffabile punto di partenza: il moto di A. di ogni creatura ha il suo termine in Dio» (De Divis. Nat., I, 76). E Duns Scoto afferma che Dio genera il Verbo conoscendo la Sua propria essenza ed esala lo Spirito Santo amandoquest'essenza. In tal modo l'A. eterno è l'origine e la causa di ogni comunicazione dell'essenza divina e benché questo atto non sia «naturale», perché è un atto di volontà, esso è tuttavia necessario (Op. Ox., I, dist. 10, q. 1, n. 2). Notazioni analoghe ricorrono frequentemente nella corrente mistica mentre nella corrente aristotelica l'uso teologico della nozione di A. è assai più ristretto. preferendosi illustrare la natura divina sulla base dei concetti di essere, sostanza e causalità. Ritornano tuttavia in tutta la Scolastica le notazioni aristoteliche sull'amicizia, opportunamente modificate e adattate a caratterizzare la natura dell'A. cristiano (caritas). Così S. Tommaso afferma che è comune ad ogni natura l'avere una qualche inclinazione, che è l'appetito naturale o l'amore. Questa inclinazione è diversa nelle diverse nature e c'è quindi un A. naturale e un A. intellettuale; l'A. naturale è anch'esso un retto A. perché è una inclinazione posta da Dio negli esseri creati; ma l'A. intellettuale, che è carità e virtù, è più perfetto del primo, quindi, aggiungendosi ad esso, lo perfeziona,
nel modo stesso in cui la verità soprannaturale si aggiunge, senza contrastarla, alla verità naturale e la perfeziona (S. Th., 1, q. 60, a. 1). Quanto all'A. intellettuale, cioè alla carità, questa è definita da S. Tommaso come «l'amicizia dell'uomo verso Dio»: intendendosi per «amicizia», secondo il significato aristotelico, l'A. che è congiunto con la benevolenza (amor benevolentiae) cioè che vuole il bene di colui che si ama, e non vuole semplicemente appropriarsi del bene che è nella cosa amata (amor concupiscientiae) come accade in chi ama il vino o un cavallo. Ma l'amicizia suppone non solo la benevolenza ma anche il mutuo A. e così si fonda su una certa comunicazione, che, nel caso della carità, è quella dell'uomo con Dio, che comunica a noi la Sua beatitudine (Ibid., II, 2, q. 23, a. 1). Questa comunione è, secondo S. Tommaso, ciò che c'è di proprio nell'A.: esso è una specie di unione o vincolo (unio vel nexus) di natura affettiva, che è simile all'unione sostanziale in quanto chi ama si comporta verso l'amato come verso se stesso. Una unione reale è poi anche l'effetto dell'A., ma si tratta di un'unione che non àltera o corrompe coloro che si uniscono ma si mantiene nei limiti opportuni e convenienti: per es., fa sì che parlino e dialoghino insieme o si congiungano in altri modi siffatti (Ibid., II, 1, q. 28, a. 1, ad 2°). In quanto «amare» significa voler il bene di qualcuno, l'A. appartiene alla volontà di Dio e la costituisce. Ma l'amor di Dio è diverso da quello umano perché mentre quest'ultimo non crea la bontà delle cose ma la trova nell'oggetto da cui è suscitato, l'A. di Dio infonde e crea la bontà nelle cose stesse (Ibid., I, q. 20, a. 2).
L'epoca moderna
La speculazione teologica sull'A. ritorna nel platonismo rinascimentale; ma questo accentua la reciprocità dell'A. tra Dio e l'uomo, conformemente alla tendenza propria del Rinascimento a insistere sul valore e la dignità dell'uomo come tale. Marsilio Ficino afferma che l'A. è il legame del mondo e abolisce l'indegnità della natura corporea che viene riscattata dalla sollecitudine di Dio (TheoL Plat., XVI, 7). L'uomo non potrebbe amare Dio, se Iddio stesso non lo amasse; Dio si rivolge al mondo con un libero atto di A., prende cura di esso e lo rende vivo ed attivo. L'A. spiega la libertà dell'azione divina come quella dell'azione umana, giacché esso è libero e nasce spontaneamente dalla libera volontà (In Conv. de Am. Comm., V, 8). E gli stessi accenti ritornano nei Dialoghi d'A. di Leone Ebreo che ebbero vastissima diffusione nella seconda metà del '500. Ma anche nel naturalismo del Rinascimento l'A. ritorna talvolta come forza metafisica e teologica. Campanella ritiene che le tre primalità dell'essere (cioè i princìpi costitutivi del mondo) siano il Potere, il Sapere e l'A. (Met., VI, proem.). L'A. infatti appartiene a tutti gli enti perché tutti amano il loro essere e desiderano conservarlo (Ibid., VI, 10, a. 1). In tutte e tre le primalità, il rapporto di un essere con se stesso precede il suo rapporto con l'altro: si può esercitare una forza sull'altro essere solo in quanto la si esercita su di sé; così si può amare e conoscere l'altro essere solo in quanto si conosce e si ama se stesso (Ibid., 11, 5, 1 a. 13). In tutte le cose finite le tre primalità si mescolano con i loro contrari: la potenza con l'impotenza, la sapienza con l'insipienza, l'A. con l'odio. Soltanto in Dio, che è infinito, esse escludono tali contrari ed esistono nella loro purezza ed assolutezza (Ibid., VI, proem.). Si tratta, come si vede, di notazioni che richiamano quelle agostiniane. Ed in realtà l'uso metafisico e teologico della nozione di A. si può considerare, nella tradizione filosofica, come un portato dell'agostinismo; almeno fino al Romanticismo dal quale questa nozione viene ricondotta ad un senso panteistico, il cui precedente più importante è Spinoza. Bisogna poi tener presente che l'uso teologico della nozione di A. implica non solo che Dio sia oggetto d'A. (il che non è negato da nessuna concezione cristiana della divinità) ma che Egli stesso ami: il che è cosa completamente diversa e che per l'appunto si ritrova soltanto nell'agostinismo, nel Romanticismo e in talune concezioni che, come quella di Feuerbach e del positivismo moderno, tendono a identificare Dio con l'umanità. In realtà l'A., nel suo concetto classico, che si modella sulla esperienza umana, ha come sua condizione la mancanza, e quindi il desiderio e il bisogno, di ciò che si ama, difficilmente può essere pertanto attribuito a Dio che nella sua completezza e infinità si sottrae a ogni deficienza. La concezione panteistica dell'A., per es., come quella di Spinoza, di Schelling e di Hegel, si sottrae a questa difficoltà solo interpretando l'A. come unità o coscienza dell'unità, cioè in un modo che non trova riscontro in qualsiasi tipo di esperienza amorosa. L'unità, sia essa o no cosciente di sé, non ha niente a che fare con l'A. ed è anzi la negazione di esso perché esclude il rapporto e la comunità che costituiscono l'A. in tutte le sue manifestazioni. È abbastanza ovvio che dove c'è una cosa sola non c'è né chi ami né chi sia amato.
Alla tradizione agostiniana si possono riportare le famose parole di Pascal: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei Cristiani, è un Dio di A. e di consolazione, è un Dio che riempie l'anima e il cuore di quelli ch'Egli possiede e fa loro sentire interiormente la loro miseria e la Sua misericordia infinita» (Pensées, 556, Brunschwicg). Ma è dubbio che in questo o simili testi di Pascal si possa vedere molto più della nozione che Dio è, in primo luogo e soprattutto, oggetto d'amore. Quanto a Malebranche, egli afferma che Dio ha creato il mondo «per procurarsi un onore degno di Lui» (Recherche de la vérité, IX) e fa dire al Verbo: «È la mia potenza che fa tutto, così il bene come il male... perciò tu devi amare solo me perché nessuno all'infuori di me produce in te i piaceri che tu sperimenti in occasione di ciò che accade nel tuo corpo» (Méditations chrétiennes, XII, 5); parole che sembrano escludere la dottrina di Dio come amore.
Le notazioni di Cartesio intorno al fenomeno dell'A., riportato alla scala umana, sono importanti. «L'A., egli dice, è un'emozione dell'anima prodotta dal movimento degli spiriti vitali che la incita a congiungersi volontariamente con gli oggetti che le appaiono convenienti». In quanto è prodotta dagli spiriti l'A., che è un'affezione e dipende dal corpo, è diversa dal giudizio che anche induce l'anima, di sua libera volontà, a unirsi con le cose che essa crede buone (Pass. de l'âme, II, 79). L'A. si distingue altresì dal desiderio, che è rivolto al futuro; esso consente invece di considerarsi subito uniti con ciò che si ama «in modo tale che noi immaginiamo un tutto di cui siamo solo una parte e di cui la cosa amata è l'altra parte» (Ibid., 80). Cartesio rigetta la distinzione medievale tra A. di concupiscenza e A. di benevolenza perché, egli dice, questa distinzione concerne gli effetti dell'A. ma non l'essenza di esso: in quanto siamo volontariamente congiunti con qualche oggetto, quale che sia la natura di questo, abbiamo per esso un senso di benevolenza e questo è uno dei principali effetti dell'A. (Ibid., 81). Ci sono tuttavia varie specie dell'A., relative ai diversi oggetti che possiamo amare: l'A. che un uomo ambizioso ha per la gloria, il povero per il denaro, l'ubriacone per il vino, un uomo brutale per una donna che desidera violare, l'uomo d'onore per l'amico o per la moglie e un buon padre per i suoi figli, sono specie diverse e tuttavia simili dell'amore. Le prime quattro tuttavia, sono A. solo del possesso degli oggetti ai quali l'emozione si dirige e non sono A. degli oggetti in se stessi; le altre invece si dirigono verso questi stessi oggetti e desiderano il bene di essi (Ibid., 82). Di questa natura è anche l'amicizia; la quale, per di più, è legata alla stima della persona amata; sicché non si può avere amicizia per un fiore, un uccello, un cavallo, ma solo per gli uomini (Ibid., 83). In generale, quando stimiamo l'oggetto dell'A. meno di noi stessi, proviamo per esso un semplice affetto; quando lo stimiamo come noi stessi, proviamo amicizia; e quando lo stimiamo più di noi stessi proviamo devozione. Di quest'ultima il principale oggetto è ovviamente Dio, ma essa può dirigersi anche alla patria, alla città e a qualsiasi uomo che stimiamo molto più di noi stessi (Ibid., 83). Sulla stessa linea si trova l'analisi di Hume secondo il quale l'A. è un'emozione indefinibile, di cui però si può intendere il meccanismo. La causa di essa è sempre un essere pensante (non si possono amare oggetti inanimati) e il meccanismo con cui questa causa agisce e costituita da una doppia connessione: una connessione di idee – tra l'idea di sé e l'idea dell'altro esse pensante – e una connessione emotiva tra emozione dell'A. e quella dell'orgoglio (che è l'emozione che ci mette in rapporto col nostro io); o tra l'emozione dell'odio e quella dell'umiltà (Diss. on the Passions, II, 2). In generale gli scrittori del '700 insistono sulla connessione dell'A. con la benevolenza: che è il tratto su cui aveva insistito Aristotele a proposito dell'amicizia. Leibniz ha espresso nella forma più chiara, che doveva essere ripetuta numerose volte nella letteratura del '700, questa nozione dell'amore. «Quando si ama sinceramente una persona, egli dice (Op. Phil., ed. Erdmann, pag. 789-790), non si cerca il proprio profitto né un piacere staccato da quello della persona amata, ma si cerca il proprio piacere nell'appagamento e nella felicità di questa persona; e se questa felicità non piacesse di per se stessa ma solo a causa di un vantaggio che ne risulta per noi, non si tratterebbe più di un A. sincero e puro. Occorre dunque che si provi immediatamente piacere in questa felicità e che si provi dolore nell'infelicità della persona amata; giacché ciò che dà immediatamente piacere di per se stesso è anche desiderato di per se stesso come costituente (almeno in parte) lo scopo dei nostri intenti e come qualcosa che entra nella nostra propria felicità e ci dà soddisfazione». Questa nozione dell'A. toglie, secondo Leibniz, il contrasto fra due verità, cioè tra quella che è impossibile per noi di desiderare altra cosa se non il nostro proprio bene e quella che non c'è A. se non quando cerchiamo il bene dell'oggetto amato di per se stesso e non per nostro proprio vantaggio. Questa nozione ha anche il vantaggio, secondo Leibniz, di esser comune all'A. divino e all'A. umano perché esprime ogni tipo di A. «non mercenario», qual è, per es., lacaritas o «benevolenza universale» (Op. Phil., pag. 218). Va da sé che in questo senso l'A. può rivolgersi solo a «ciò che è capace di piacere o di felicità»; sicché non si può dire, se non per metafora, che amiamo le cose inanimate di cui godiamo (Nouv. Ess., II, 20, 4). Notazioni di questo genere sono assai frequenti negli scrittori del '700. Wolff dice che l'A. è «la disposizione dell'anima a prender piacere dalla felicità altrui» (Psichol. empirica, § 633). E Vauvenargues afferma: «L'A. è il compiacersi nell'oggetto amato. Amare una cosa significa compiacersi del suo possesso, della sua grazia, del suo accrescimento, temere la sua privazione, i suoi decadimenti, ecc.» (De l'esprit humain, § 24).
Idealismo e romanticismo
Nessuno degli scrittori del '700 mette in dubbio il fondamento sensibile dell'A.: fondamento per il quale esso si differenzia dall'amicizia. Vauvenargues, per es., dice: «Nell'amicizia lo spirito è l'organo del sentimento, nell'A. sono i sensi» (Ibid., § 36). E Kant sembra ammettere questo presupposto quando distingue risolutamente l'A. sensibile o «patologico» dall'A. «pratico» cioè morale, che è comandato dalla massima cristiana «Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te stesso». L'amore di Dio, come inclinazione, dice Kant, è impossibile perché Dio non è un oggetto dei sensi. E un simile A. verso gli uomini è bensì possibile, ma non può esser comandato, perché non è in potere di nessuno amare un altro solamente per precetto. «Amar Dio» può significare quindi soltanto «eseguirevolentieri i suoi comandamenti»; e «amare il prossimo» soltanto «mettere in pratica volentieri tutti i doveri verso di esso». Ma qui la parola «volentieri» dice che la massima cristiana non impone che di aspirare a questo A. pratico senza che esso sia raggiungibile da parte degli esseri finiti. Difatti sarebbe inutile e assurdo «comandare» ciò che si fa «volentieri»; perciò il precetto evangelico presenta l'intenzione morale nella sua perfezione totale «come un ideale di santità non raggiungibile da nessuna creatura e che tuttavia è l'esemplare a cui dobbiamo procurare di avvicinarci con un progresso ininterrotto ma infinito» (Crit. R. Prat., I, I, cap. 3).
La dottrina di Spinoza presenta due concetti dell'A., dei quali il secondo doveva essere utilizzato dai Romantici. In primo luogo l'A. con e ogni altra emozione (affectus) è un'affezione dell'anima (passio) e precisamente consiste nella gioia accompagnata dall'idea di una causa esterna (Et., III, 13 scol.). In questo senso si deve dire, propriamente parlando, che Dio non ama alcuno giacché esso non è soggetto ad alcuna affezione (Ibid., V, 17, corol.). Ma esiste poi un «A. intellettuale di Dio» che è la visione di tutte le cose nel loro ordine necessario, cioè in quanto derivano, con eterna necessità, dall'essenza stessa di Dio (Ibid., V, 29 scol.; 32 corol.). Questo A. intellettuale è il solo eterno ed è quello con cui Dio ama se stesso; sicché l'A. intellettuale della mente verso Dio è parte dell'A. infinito con cui Dio ama se stesso. «Ne consegue, dice Spinoza, che Dio, in quanto ama se stesso, ama gli uomini e per conseguenza che l'A. di Dio verso gli uomini e l'A. intellettuale della mente verso Dio, sono la medesima cosa» (Ibid., V, 36 corol.). Questo A. è ciò in cui consiste la nostra salvezza o beatitudine, o libertà; ed è ciò che nei libri sacri si chiama «gloria» (Ibid., scol.). È chiaro che esso non è più un'affezione, né una emozione nel senso che Spinoza ha dato a tali termini, ma è la pura contemplazione di Dio, anzi, poiché la mente che contempla Dio non è che un attributo di Dio, quest'A. non è altro che la contemplazione che Dio ha di sé, come unità di se stesso e del mondo. Qui il concetto dell'A. cessa di riferirsi all'esperienza umana: diventa il concetto metafisico dell'unità di Dio con se stesso e col mondo, quindi con tutte le manifestazioni del mondo, uomini compresi.
Questo concetto doveva diventare centrale e dominante nelRomanticismo della prima metà dell'800, che s'impernia tutto sul tentativo di dimostrare l'unità (cioè la totale identità e intrinsichezza) del finito e dell'Infinito. Schleiermacher fa di quest'unità, in quanto si rivela nella forma del sentimenti, il fondamento della religione; Fichte, Schelling e Hegel fanno della stessa unità, da essi posta come principio della ragione, il fondamento della filosofia. Ma fu per l'appunto quest'unità che consentì ai Romantici di elaborare una teoria dell'A., per la quale l'A. stesso, pur rivolgendosi a cose o creature finite, vede o coglie, in queste, le espressioni o i simboli dell'Infinito (cioè dell'Assoluto o di Dio). Per l'unità del finito e dell'Infinito, infatti, l'aspirazione all'Infinito può giungere al suo appagamento anche nel mondo finito, per es., nell'A. verso la donna. A., poesia, unità di finito e d'Infinito e sentimento di quest'unità, diventano sinonimi per i romantici. Friedrich Schlegel è forse colui che ha espresso meglio questi concetti. «La sorgente e l'anima di tutte le emozioni, egli dice, è l'A.; e lo spirito dell'A. deve nella poesia romantica esser presente ovunque, invisibile e visibile ... Le passioni galanti alle quali nella poesia dei moderni, dall'epigramma alla tragedia, non si può sfuggire, sono il grado minimo di quello Spirito, o piuttosto, secondo i casi, la lettera estrinseca di esso o null'affatto o qualcosa di non amabile e privo di amore. No, è il Soffio divino che ci commuove nei suoni della musica. Esso non si lascia prendere a forza o meccanicamente afferrare, ma amichevolmente attirare dalla bellezza mortale e in essa velare: anche le magiche parole della poesia possono essere penetrate e animate dalla sua forza. Ma nella poesia dove non è o non può essere dappertutto, esso non è affatto. Esso è una Sostanza infinita e non aderisce e non rivolge il suo interesse soltanto alle persone, alle occasioni, alle situazioni e alle tendenze individuali: per il vero poeta, tutto questo, anche se la sua anima ne è intimamente presa, è soltanto l'indizio dell'Altissimo, dell'Infinito, è il geroglifico dell'unico eterno A. e della sacra pienezza di Vita della natura formatrice» (Prosaischen Jugendschriften, ed. Minor, II, pagina 371).
La poesia diviene così un analogo dell'A. e l'A., come brama dell'infinito e cioè di Dio, dell'Universo, dell'Eterno, può appagarsi e trovare la sua pace nel finito, nelle creature del mondo. Nei Discepoli di Sais di Novalis, Giacinto partito alla ricerca della dea velata Isis, finisce per trovare, sotto il velo della dea, Fiorellin di rosa, cioè la fanciulla amata ch'egli aveva abbandonata per muovere alla ricerca di Sais. Il sentimento, in particolare l'A., rivela l'ultimo mistero dell'Universo. Hegel ha espresso con le formule più rigorose e pregnanti questo concetto dell'amore. Già in uno scritto giovanile d'ispirazione romantica, i cui presupposti sono per l'appunto Schleiermacher e F. Schlegel (NOHL, Hegels theologische Jugendschr., pag. 379 sgg., trad. in De NEGRI, Princ. di Hegel, pag. 18 sgg.), il «vero A.» viene identificato con la «vera unificazione», che ha luogo solo «tra viventi che sono uguali in potere» e che sono in tutto e per tutto viventi l'uno per l'altro e cioè in nessun lato sono, l'uno per l'altro, dei morti. L'A. è un sentimento infinito per cui «il vivente sente il vivente». Gli amanti «sono un vivente intero». Essi sono reciprocamente indipendenti solo in quanto «possono morire». L'A. è superiore a tutte le opposizioni e ad ogni molteplicità. Queste notazioni romantiche ritornano nelle opere mature di Hegel. «L'A., egli dice, esprime in generale la coscienza della mia unità con un altro, sicché io per me non sono isolato, ma la mia autocoscienza si afferma solo come rinuncia al mio essere per sé e attraverso il sapermi come l'unità di me con l'altro e dell'altro con me» (Fil. del dir., § 158, aggiunta). «La vera essenza dell'A., dice ancora Hegel nelle Lezioni di estetica, consiste nell'abbandonare la coscienza di sé nell'obliarsi in un altro se stesso e tuttavia nel ritrovarsi e possedersi veramente in quest'oblio» (Vorles. über die Aesthetik, ed. Glockner, II, pag. 149). L'A. è «identificazione del soggetto con un'altra persona»; è «il sentimento per cui due esseri non esistono che in un'unità perfetta e pongono in quest'identità tutta la loro anima e il mondo intero» (Ibid., p. 178). «Questa rinuncia a se stesso per identificarsi con un altro, quest'abbandono nel quale il soggetto ritrova tuttavia la pienezza del suo essere, costituisce il carattere infinito dell'A.» (Ibid., p. 179). Da questo punto di vista Hegel dice pure che la morte di Cristo è «l'A. più alto», nel senso che essa esprime «l'identità del divino e dell'umano»; e così è «l'intuizione dell'unità nel suo grado assoluto, la più alta istituzione dell'A.» (Phil. der Religion, ed. Glockner, II, pag. 304). Questa nozione romantica, che vede nell'A. la totalità della vita e dell'universo nella forma di un «sentimento infinito» che è fine a se stesso, si ritrova in tutta la tradizione letteraria del Romanticismo, e specialmente nella narrativa, a cominciare dalla Lucinda di Schlegel. Questa stessa nozione ha anche penetrato di sé il costume e la vita dei popoli occidentali sino, si può dire, ai giorni nostri: nei quali ancora l'aggettivo «romantico» sembra il più adatto a definire la natura di un sentimento esaltato e tendente a infinitizzarsi, in cui l'aspetto spirituale e l'aspetto sensuale si complicano e si limitano l'un l'altro, dando luogo a vicende interiori di cui ci si compiace di seguire le più minute sfumature, esagerandone l'importanza e il valore. Fa parte anche dell'A. romantico, in quanto il suo proprio oggetto è l'infinito, o meglio l'infinita unità e identità, l'insistenza sull'A. come aspirazione, desiderio o brama, che invece di trovare soddisfazione nell'atto sessuale, teme di essere diminuito o indebolito da quest'atto e tende ad evitarlo. La «lontananza» è ritenuta dai Romantici come un mezzo che favorisce i sogni voluttuosi; perciò l'A. romantico subisce di regola un raffreddamento alla presenza dell'oggetto amato.
Ma la concezione romantica dell'A. si trova anche ill filosofie e indirizzi che sono diversi dal Romanticismo o almeno non ne condividono tutti i caratteri. Schopenhauer distingue nettamente l'A. sessuale (eros) e l'A. puro (agape). L'A. sessuale è semplicemente l'emozione di cui si serve il «genio della specie» per favorire l'opera oscura e problematica della propagazione della specie (Metaf. dell'A. sessuale). Ma il «genio della specie» non è che la cieca, malvagia e disperata «volontà di vivere», che costituisce la sostanza dell'universo, il suo «noumeno». L'A. sessuale non è quindi che la manifestazione in forma fenomenica e cioè sotto l'apparenza della diversità e della molteplicità degli esseri viventi, dell'unica forza che regge il mondo. Quanto all'A. puro, esso non è altro che compassione e la compassione è la conoscenza dell'altrui dolore. Ma l'altrui dolore è poi il dolore del mondo, il dolore della stessa volontà di vita divisa in se stessa e lottante contro se stessa nelle sue manifestazioni fenomeniche: al di là delle quali, l'A. come compassione è la percezione dell'unità fondamentale (Die Welt, I, § 67). In tal modo la nozione romantica dell'A. come sentimento dell'unità cosmica, rimane nella teoria di Schopenhauer. Ed essa rimane anche nell'analisi di un suo seguace, Eduard von Hartmann, che la rende più esplicita affermando che l'A. è l'identificazione dell'amante e dell'amato; una specie di allargamento dell'egoismo mediante l'assorbimento di un io da parte di un altro io, onde il senso più profondo dell'A. consiste nel trattare l'oggetto amato come se fosse, nella sua essenza, identico con l'io che ama. Se quest'unità e identità non ci fossero, afferma Hartmann, l'A. stesso sarebbe un'illusione: ma Hartmann ritiene che non si tratta di un'illusione perché l'identità che l'A. si prospetta, o realizza almeno in parte, è l'identità del Principio incosciente, della Forza infinita che regge il mondo (Phänomenologie des sittlichen Bewusstseins, 1879, pag. 793).
Verso la filosofia contemporanea
Si può dire in generale che tutte le teorie riducono l'A. ad una forza unica e totale, o comunque lo fanno derivare da una forza siffatta, partecipano, in qualche misura, della nozione romantica dell'A. come unità e identità. Sotto questo aspetto si deve riconoscere uno sfondo romantico anche alla dottrina di Freud, secondo la quale, l'A. è la specificazione e la sublimazione di una forza istintiva originaria che è la libido. La libido non è l'impulso sessuale specifico (cioè diretto verso l'individuo dell'altro sesso) ma semplicemente la tendenza alla produzione e alla riproduzione di sensazioni voluttuose relative alle cosiddette «zone erotogene»; tendenza che si manifesta sin dai primi istanti della vita umana. L'impulso sessuale specifico è una formazione tarda e complessa, formazione che d'altronde non e mai completa come è dimostrato dai pervertimenti sessuali, così vari e numerosi. Questi pervertimenti non sono quindi, secondo Freud, deviazioni da un impulso primitivo normale ma modi di comportamento che rimontano ai primi istanti della vita, che si sono sottratti ad uno sviluppo normale e si sono fissati nella forma di una fase primitiva. Dalla libido si sviluppano, secondo Freud, le forme superiori dell'A. mediante l'inibizione e lasublimazione. La inibizione ha la funzione di mantenere la libidonei limiti compatibili con la conservazione della specie; e da essa derivano le emozioni morali, in primo luogo quelle della vergogna, del pudore, ecc., che tendono a immobilizzare e a contenere le manifestazioni della libido. Nell'inibizione della libido e dei suoi contenuti obiettivi, prendono radici le nevrosi. La sublimazione, invece, si ha quando la libido si distacca dal suo contenuto primitivo, cioè dalla sensazione voluttuosa e dagli oggetti che vi si connettono, per concentrarsi su altri oggetti, che saranno in questo modo amati di per se stessi, indipendentemente dalla loro capacità di produrre sensazioni voluttuose. Sulla sublimazione della libido inibita si fondano, secondo Freud, tutti i progressi della vita sociale, l'arte, la scienza e la civiltà in generale nella misura almeno in cui tali progressi dipendono da fattori psichici. Tutte le forme superiori dell'A. non sono, secondo Freud, che sublimazioni della libidoinibita. In tal modo, la teoria dell'A. di Freud, sembra prospettare all'uomo un'unica alternativa, quella tra il primitivismo sessuale e l'ascetismo totale: giacché le forme superiori dell'A. e in generale dell'attività umana non potrebbero prodursi se non a prezzo della inibizione e della sublimazione della libido. Questa alternativa appare falsa in linea di fatto e assai inquietante dal punto di vista morale. Ma forse ancora più grave è che la dottrina di Freud non contiene nessun elemento adatto a spiegare la scelta che è presente in tutte le forme dell'A. e che manca completamente nei comportamenti istintivi, che sono ciechi ed anonimi. Eppure, lo stesso Freud insiste sul valore della scelta nella sua critica dell'A. universale. «Alcune persone, dice Freud, si rendono indipendenti dall'acquiescenza dei loro oggetti trasferendo il valore principale dal fatto di essere amate al loro proprio atto di amare; esse si proteggono contro la perdita dell'oggetto amato rivolgendo il loro A., non a oggetti individuali, ma a tutti gli uomini egualmente, ed evitano le incertezze e le delusioni dell'A. genitale distogliendosi dallo scopo sessuale di esso e trasformando l'istinto in un impulso a intento inibito. Lo stato che esse inducono in se stesse con questo processo – un immutabile, non deviabile atteggiamento tenero – ha poca somiglianza superficiale con le tempestose vicende dell'A. genitale, ma è tuttavia derivato da questo» (Civilisation and its Discontents, pag. 69). Le obiezioni che Freud fa a questo tipo di A. sono due: esso non discrimina tra i suoi oggetti il che si risolve in un'ingiustizia verso questi oggetti stessi; e in secondo luogo non tutti gli uomini sono degni di amore. Se io amo qualcuno, dice Freud, egli dev'essere degno di quest'A. in un modo o in un altro: ne sarà degno perché è così simile a me in qualche aspetto importante che io posso amare me stesso in lui; o perché è molto più perfetto di me sicché io posso amare in lui il mio ideale di me stesso; o perché è il figlio del mio amico del quale intendo condividere gli affetti e le pene. Ma se non c'è alcun motivo specifico di amarlo, l'amarlo sarà assai difficile per me e sarà un'ingiustizia per quelli che sono degni del mio A. giacché porrò questi ultimi allo stesso livello di lui. Ed inoltre l'A. che potrò dargli, come adempienza al precetto dell'A. universale, sarà soltanto una piccolissima parte di quello che, per tutte le leggi della ragione, io sono autorizzato a dare a me stesso. In conclusione il comando di amare il nostro prossimo come noi stessi è la più forte difesa contro l'aggressività umana ed è l'esempio superlativo dell'atteggiamento anti-psicologico delsuper-ego culturale. Ma è un comando impossibile a rispettarsi: tale un'enorme inflazione di A. potrebbe solo abbassarne il valore e non sarebbe un rimedio del male» (Ibid., pag. 139-41). Queste considerazioni presuppongono ovviamente che l'A. implica una scelta motivata dal valore riconosciuto o attribuito all'oggetto amato; ma proprio questo elemento di scelta non trova posto nella dottrina di Freud, tutta fondata sul principio del carattere istintivo della libido da cui ogni A. deriva.
La critica di Freud all'«A. universale» è importante e, per qualche aspetto, decisiva per l'orientamento contemporaneo intorno al problema dell'amore. Tuttavia Freud ha diretto questa critica contro un bersaglio sbagliato, il precetto evangelico dell'A. del prossimo: il vero bersaglio di essa è la nozione moderna, di origine positivistica, dell'A. universale. L'origine di questa nozione si può ritrovare in Feuerbach, nel quale essa ha stretta connessione con la nozione romantica dell'A. e in particolare con quella di Hegel. Feuerbach parte dal presupposto che l'oggetto al quale un soggetto essenzialmente e necessariamente si riferisce, non è altro che la natura oggettiva del soggetto stesso e che pertanto nell'oggetto l'uomo contempla se stesso e diventa in esso consapevole di sé: la coscienza dell'oggetto non è che l'autocoscienza dell'uomo (Wesen des Christentum, 1841; trad. frane., pag. 26). Questa non è altro che la stessa nozione dell'unità del soggettivo e dell'oggettivo dell'io e dell'altro, trasferita dall'infinito (al quale i Romantici la riferivano) all'uomo nella sua finitudine. Ma nonostante questo trasferimento, la nozione rimane la stessa; e l'A. è infatti inteso da Feuerbach, romanticamente, come unità e identità: «l'unità di Dio e dell'uomo, dello spirito e della natura». L'A. «non ha plurale». L'incarnazione stessa, per Feuerbach come per Hegel, non è che «il puro, assoluto A., senza aggiunta, senza distinzione tra l'A. divino e l'umano» (Ibid., pag. 82). Sulla base di questa nozione Feuerbach ha delineato la progressiva estensione dell'A. dall'oggetto sessuale, al bambino, al figlio, dal figlio al padre e finalmente alla famiglia, alla gente, alla tribù, ecc.: la quale estensione sarebbe dovuta al moltiplicarsi delle azioni reciproche e perciò della reciproca dipendenza degli istituti e degli interessi vitali. Il termine ultimo di quest'estensione progressiva sarebbe «la umanità nel suo complesso», che come tale è l'oggetto più alto dell'A. e l'ideale morale per eccellenza. Sull'A. esteso a tutta l'umanità hanno fondato la loro etica gli scrittori positivisti e specialmente Comte e Spencer; e su di esso si è pure fondata l'etica del neo-criticismo tedesco quale si trova, per es., espressa in Cohen.
In questi indirizzi i termini «umanità» e «A.» diventano sinonimi perché significano l'unità degli esseri umani e qualche volta, addirittura, l'unità cosmica secondo il concetto romantico. Le forme dell'A. vengono da questo punto di vista classificate secondo la maggiore o minore estensione del circolo di oggetti cui l'A. si estende. Così l'A. della patria sarebbe inferiore all'A. dell'umanità, l'A. della famiglia inferiore all'A. della patria e l'A. di se stesso inferiore a quello che si prova per un amico. Scheler ha mostrato (Natura e forma della simpatia, 1923) il carattere fittizio di questa gerarchia che pretende ridurre le varietà autonome dell'A. ad un'unica forma che avrebbe gradi diversi a seconda dell'estensione del circolo umano che costituisce il suo oggetto. Le sue osservazioni a questo proposito coincidono sostanzialmente con quelle già accennate di Freud: il valore dell'A. diminuisce, non s'accresce, a misura che l'A. si estende a un numero di oggetti maggiore: giacché, in generale, l'A. di ciò che è prossimo ha più valore dell'A. di ciò che è lontano, almeno finché si rivolge ad un essere vivente; e Nietzsche ha avuto torto a contrapporre (in Così parlò Zaratustra) l'A. del lontano all'A. del prossimo. Scheler ha negato il presupposto stesso della dottrina dell'A. universale: la nozione romantica dell'A. come unità o identificazione. L'A., e in generale la simpatia in tutte le sue forme, implica, e nello stesso tempo, fonda, la diversità delle persone. Il senso dell'A. consiste proprio nel non considerare e nel non trattare l'altro come se fosse identico a sé. «L'A. vero, dice Scheler (Sympathie, I, cap. IV, § 3) consiste nel comprendere sufficientemente un'altra individualità modalmente differente dalla mia, nel potermi mettere al suo posto pur mentre la considero altra da me e differente da me e pur mentre affermo, con calore emozionale e senza riserva, la sua propria realtà e il suo proprio modo d'essere». L'A. si dirige necessariamente al nucleo valido delle cose, al valore: tende a realizzare il valore più alto possibile (e questo è già un valore positivo) o a sopprimere un valore inferiore. Esso si può dirigere alla natura, alla persona umana e a Dio, in ciò che hanno di proprio, cioè altro da colui che ama. Scheler riconosce con Freud che «l'A. sessuale rappresenta un fattore primordiale fondamentale, nel senso che tutte le altre varietà dell'A. vitale e della vita istintiva derivano laloro forza e la loro vivacità da quell'A.» (Ibid., Il, cap. VI, § 5). Esso però non si riduce all'istinto sessuale perché implica scelte, che in linea di principio si orientano verso le qualità vitali che chiamiamo più «nobili». Ma se l'A. sessuale domina la sfera vitale esistono altre forme di A. corrispondenti alla sfera spirituale e alla sfera religiosa; e queste forme sono varietà qualitativamente diverse, qualità primordiali e irriducibili le une alle altre, che fanno pensare ad una preformazione, nella struttura psichica dell'uomo, dei rapporti elementari che esistono tra uomo e uomo (Ibid.). Tra queste forme non c'è tuttavia l'A. dell'umanità. L'umanità può essere amata come individuo unico ed assoluto solo da Dio; il cosiddetto A. dell'umanità è perciò soltanto l'A. dell'uomo medio di una certa epoca cioè dei valori correnti in quest'epoca, che interessano i sostenitori di questa forma di amore. La quale, secondo Scheler, non è altro cherisentimento, cioè odio per i valori positivi impliciti in «paese natale», «popolo», «patria», «Dio», odio che sostituendo l'umanità a questi portatori di valori specificamente superiori cerca di darsi e di dare l'illusione dell'A. (Ibid.).
Le analisi di Scheler sono, nella filosofia contemporanea, il primo tentativo di sottrarre la nozione dell'A. all'ideale romantico dell'assoluta unità. Si può scorgere tuttavia la suggestione e l'azione di quest'ideale in due dottrine contemporanee, apparentemente eterogenee; la dottrina dell'A. mistico di Bergson e la dottrina dell'A. sessuale di Sartre. Secondo Bergson la formula del misticismo è questa: «Dio è A. e oggetto d'A.» (Deux sources de la morale et de la religion, III; trad. ital., pag. 275). Per quanto si possa dubitare dell'esattezza della prima parte di questa formula, perché difficilmente si può riscontrare nei mistici la tesi che Dio ami l'uomo (ciò che Dio offre all'uomo che lo ama è la salvezza e la beatitudine e la partecipazione alla sua «gloria»), ciò che Bergson intende dire è che lo slancio mistico si realizza come un'unità fra l'uomo e Dio. «Non c'è più separazione completa fra chi ama e chi è amato: Dio è presente e la gioia è senza limiti» (Ibid., pag. 252). Per quest'unità, l'A. dell'uomo verso Dio è l'A. di Dio per tutti gli uomini. «Attraverso Dio, con Dio egli ama tutta l'umanità di A. divino». Ma questo A. non è la fraternità dell'ideale razionale né l'intensificarsi di una simpatia innata dell'uomo per l'uomo: è «il proseguimento di un istinto» che è alla radice della sensibilità e della ragione come di tutte le altre cose; e s'identifica con l'A. di Dio per la sua opera, A. che ha creato ogni cosa ed è in grado di rivelare, a chi sappia interrogarlo, il mistero della creazione. A quest'A. spetta perfezionare la creazione della specie umana (Ibid., IV, pag. 356-57) e ridare all'universo la sua funzione essenziale, che è quella d'essere «una macchina destinata a creare dei». Il carattere spinoziano, romantico e panteistico di queste notazioni è molto evidente; e rende evidente la nozione che esse presuppongono: quella dell'A. come unità che è identità.
Se l'«amor sacro» di Bergson è di stampo romantico, non meno romantico è l'«amor profano» di Sartre. Il presupposto dell'analisi di Sartre è che l'A. sia il tentativo o, per meglio dire, il progetto di realizzare l'unità o l'assimilazione tra l'io e l'altro. Questa esigenza di unità o di assimilazione, è, dalla parte dell'io, l'esigenza che esso sia per l'altro una totalità, un mondo, un fine assoluto. L'A. è, fondamentalmente, un voler essere amato; e voler essere amato significa «voler situarsi al di là di tutto il sistema dei valori posto dagli altri, come la condizione di ogni valorizzazione e come il fondamento oggettivo di tutti i valori» (L'étre et le néant, pag. 436). La volontà di essere amato è così la volontà di valere per l'altro come l'infinito stesso. «Lo sguardo dell'altro non mi permea più di finitudine, non immobilizza più il mio essere in ciò che sono semplicemente; io non potrò essereguardato come brutto, come piccolo, come vile, perché questi caratteri rappresentano necessariamente una limitazione di fatto del mio essere e un'apprensione della mia finitudine come finitudine» (Ibid.., pag. 437). Ma affinché l'altro possa considerarmi così, occorre che esso possa volere, cioè che sia libero: perciò il possesso fisico, il possesso dell'altro come cosa è, nell'A., insoddisfacente e deludente. Occorre che l'altro sia libero per volermi amare e per vedere in me l'infinito. Il che vuol dire che occorre che si mantenga «come pura soggettività, come l'assoluto per il quale il mondo viene all'essere» (Ibid., pag. 455). Ma qui appunto è il conflitto e lo scacco inevitabile dell'A.: giacché da un lato l'altro esige da me la stessa cosa che io esigo da lui, cioè d'essere amato e di valere per me come la totalità infinita del mondo; e dall'altro, proprio per voler ciò, per amarmi, «mi delude radicalmente col suo stesso A.: io esigevo da lui che egli fondasse il mio essere come oggetto privilegiato, mantenendosi come pura soggettività nei miei confronti; e, dal momento che mi ama, mi riconosce invece come soggetto e s'inabissa nella sua oggettività di fronte alla mia soggettività» (Ibid., pag. 444). In altri termini ognuno, nell'A., vuol essere per l'altro l'oggetto assoluto, il mondo, la totalità infinita; ma per questo occorre che l'altro rimanga soggettività libera e altrettanto assoluta. Ma poiché entrambi vogliono esattamente la stessa cosa, l'unico risultato dell'A. è un conflitto necessario e uno scacco inevitabile. C'è bensì un'altra via per realizzare l'assimilazione dell'uno e dell'altro, che è esattamente l'inversa di quella ora descritta: in luogo di progettare di assorbire l'altro conservandogli la sua alterità posso progettare di farmi assorbire dall'altro e di perdermi nella sua soggettività per sbarazzarmi della mia. In questo caso, invece di cercare di esistere per l'altro come oggetto-limite, come mondo o totalità infinita, cercherò di farmi trattare come un oggetto fra gli altri, come uno strumento da utilizzare, in una parola, come una cosa. Si avrà allora l'atteggiamento masochista. Ma il masochismo stesso è e dev'essere uno scacco perché si avrà un bel volere diventare un semplice strumento inanimato, una cosa umile, ridicola od oscena; si dovrà, per l'appunto, volerlo cioè valere, a questo scopo, come soggettività libera (Ibid., pag. 346-47). Non c'è pertanto salvezza nell'A.: il conflitto e lo scacco gli sono intrinsecamente necessari. D'altronde un conflitto analogo Sartre vede anche nel semplice desiderio sessuale, di cui così definisce «l'ideale impossibile»: «Possedere la trascendenza dell'altro come pura trascendenza e tuttavia come corpo: ridurre l'altro alla sua semplice fattualità, perché esso è allora nel mezzo del mio mondo, ma fare che questa fattualità sia una rappresentazione perpetua della sua trascendenza nullificarne» (Ibid., pag. 463-64). E come l'A. può tendere al masochismo come a un'illusoria soluzione del suo conflitto, così il desiderio sessuale tende al sadismo cioè alla non reciprocità dei rapporti sessuali, al godimento d'essere «potenza possessiva e libera nei confronti di una libertà imprigionata dalla carne» (Ibid., pag. 469). Non c'è dubbio che l'analisi di Sartre, assai ricca di notazioni e di riferimenti, rappresenti un esame spregiudicato di certe forme che l'A. può assumere ed assume, e dei conflitti cui esse mettono capo. Ma si tratta delle forme dell'A. romantico e delle sue degenerazioni. L'A. di cui parla Sartre è il progetto della fusione assoluta fra due infiniti; e due infiniti non possono che escludersi e contraddirsi. Voler essere amato significa per Sartre voler essere la totalità dell'essere, il fondamento dei valori, il tutto e l'infinito: cioè il mondo o Dio stesso. E l'altro, l'amato, dovrebbe essere un soggetto altrettanto assoluto ed infinito, capace di dare assolutezza ed infinità a chi lo ama. Sono evidenti i presupposti romantici di quest'impostazione. L'unità assoluta ed infinita che il Romanticismo classico ingenuamente postulava come una realtà garantita dell'A. diventa, in Sartre, un progetto inevitabilmente destinato allo scacco. Quello di Sartre è un Romanticismo deluso e consapevole del suo fallimento.
La filosofia contemporanea
È tuttavia palese nella filosofia contemporanea la tendenza anti-romantica a togliere all'A. il suo carattere d'infinità, cioè la sua natura «cosmica» o «divina» e a circoscriverlo in limiti più ristretti e precisabili. Russell ha messo in luce la fragilità dell'A. romantico che pretende di essere la totalità della vita e va invece rapidamente incontro all'esaurimento e al fallimento. «L'A., egli ha detto, è ciò che dà valore intrinseco a un matrimonio e, come l'arte e il pensiero, è una delle cose supreme che fanno la vita degna di essere vissuta. Ma sebbene non ci sia un buon matrimonio senza A., i migliori matrimoni hanno uno scopo che va al di là dell'amore. L'A. reciproco di due persone è troppo circoscritto, troppo separato dalla comunità per essere per se stesso lo scopo principale di una buona vita. Esso non è in se stesso una fonte sufficiente di attività,non è sufficientemente prospettivo per costituire un'esistenza in cui si possa trovare una soddisfazione ultima. Esso diventa presto o tardi retrospettivo, è una tomba di gioie morte, non una sorgente di nuova vita. Questo male è inseparabile da ogni scopo che può essere raggiunto solo in un'unica emozione suprema. I soli scopi adeguati sono quelli i quali insistono sul futuro che non possono mai essere pienamente raggiunti ma sono sempre in crescendo e infiniti come l'infinità della ricerca umana. Solo quando l'A. è legato a qualche scopo infinito di questa specie, può avere la serietà e la profondità di cui è capace» (Principles of Social Reconstruction, pag. 192). Con ciò l'A. non è negato ma ricondotto ai limiti che lo definiscono. «Un uomo, dice ancora Russell, che non ha mai veduto le cose belle in compagnia della donna amata, non ha conosciuto appieno il magico potere che tali cose possiedono. Inoltre l'A. è in grado di spezzare il duro nocciolo del proprio io perché è una specie di collaborazione biologica nella quale le emozioni dell'uno sono necessarie alla soddisfazione degli istintivi propositi dell'altro» (La conquista della felicità; trad. ital., pag. 42). In questo senso esso, tuttavia, non richiede il sacrificio delle persone che si amano ma costituisce piuttosto un arricchimento e un compimento delle loro personalità. Non richiede neppure l'ammutolimento dello spirito critico da ambe le parti ma piuttosto il rispetto della reciproca autonomia e la fedeltà agli impegni presi. Per questo è indispensabile la realizzazione dell'uguaglianza di condizione morale e giuridica tra i sessi ed anche una trasformazione e una liberalizzazione delle regole morali che ora restringono e inibiscono in modo troppo rigido i rapporti sessuali. Dall'altro lato però, «il rapporto sessuale senza A. ha un valore minimo e deve essere considerato come un primo esperimento, tale da dare un concetto approssimativo dell'A.» (Marriage and Morals, cap. IX; trad. ital., pag. 118).
Uno sguardo d'insieme
Uno sguardo d'insieme alle teorie di cui si è fatto cenno mostra che in esse ricorrono due nozioni fondamentali dell'A., all'una o all'altra delle quali ciascuna di esse può essere agevolmente ricondotta. La prima è quella dell'A. come un rapporto che non annulla la realtà individuale e l'autonomia degli esseri tra i quali intercorre, ma tende a rafforzarle, mediante uno scambio reciproco emotivamente coni rullato di servizi e di cure di ogni genere, scambio se I quale ognuno cerca il bene dell'altro come suo proprio. In questo senso l'A. tende alla reciprocità ed è sempre reciproco nella sua forma riuscita: la quale tuttavia potrà sempre dirsi un'unione (di interessi, d'intenti, di propositi, di bisogni, nonché delle emozioni correlative) ma mai un'«unità» nel senso proprio del termine. In questo senso l'A. è un rapporto finito tra enti finiti, suscettibile della più 'rande varietà di modi in conformità con la varietà di interessi, propositi, bisogni, e relative funzioni emotive, che possono costituirne la base oggettiva. «Rapporto finito» significa rapporto non necessariamente determinato da forze ineluttabili, ma condizionato da elementi e situazioni atte a spiegarne le modalità particolari. Significa altresi rapporto soggetto alla riuscita come alla non riuscita e, anche nei casi più favorevoli, suscettibile di riuscite solo parziali e di stabilità relativa. In questo caso, ovviamente, l'A. non è mai «tutto» e non costituisce la soluzione di tutti i problemi umani. Ogni tipo o specie di A., e, in ogni tipo o specie, ogni caso di esso, sarà delimitato e definito, nel rapporto che lo costituisce, da quei particolari interessi, bisogni, aspirazioni, preoccupazioni, ecc., la cui compartecipazione costituirà di volta in volta la base o il motivo dell'amore. Specificamente, l'A. potrà essere definito come il controllo emotivo di tali tipi o modi di compartecipazione e dei comportamenti corrispondenti. Il valore di questo controllo emotivo può essere reso ovvio da qualche osservazione, per es., la fedeltà nell'A. non ha valore se deriva non dal controllo emotivo, ma da una fredda nozione del dovere; e d'altra parte certe infedeltà non intaccano necessariamente l'amore. In questi limiti in cui l'A. è un fenomeno umano, per la descrizione del quale termini come «unità», «tutto», «infinito», «assoluto» sono fuori luogo, l'A. perde di sostanza cosmica quanto guadagna d'importanza umana; e il suo significato, oggettivamente constatabile, per la formazione, la conservazione, l'equilibrio della personalità umana, diventa fondamentale. La nozione dell'A. in questo senso è quella illustrata da Platone, Aristotele, S. Tommaso, Cartesio, Leibniz, Scheler, Russell.
La seconda ricorrente teoria dell'A. è quella che vede in esso un'unità assoluta o infinita, ovvero la coscienza, il desiderio o il progetto di tale unità. Da questo punto di vista l'A. cessa di essere un fenomeno umano per diventare un fenomeno cosmico o meglio ancora la natura del Principio o della Realtà suprema. La riuscita o la non riuscita dell'amore umano diventa indifferente ed anzi, l'A. umano, come aspirazione all'identità assoluta, e come tentativo da parte del finito di identificarsi con l'Infinito, viene condannato preventivamente all'insuccesso e ridotto ad un'aspirazione unilaterale, per la quale la reciprocità è deludente e che si contenta di vagheggiare la vaga forma di un ideale sfuggente. Due sono le conseguenze di tale concetto dell'amore. La prima è l'infinitizzazione delle vicende amorose che, considerate come modi o manifestazioni dell'Infinito, acquistano un significato e una portata sproporzionata e grottesca senza rapporto con l'importanza reale che esse hanno per la personalità umana e per i rapporti di essa con gli altri. La seconda è che ogni tipo o forma di A. umano viene destinato allo scacco; e la stessa riuscita di tale A., constatabile nella reciprocità, nella possibilità della compartecipazione, viene assunta come il segno di questo scacco. Questi due atteggiamenti si possono agevolmente riscontrare nella letteratura romantica sull'amore. Questa nozione dell'A. è quella che si trova difesa da Spinoza, Hegel, Feuerbach, Bergson, Sartre.
(Nicola Abbagnano)
Appunti aggiuntivi
Nella riflessione più recente il miracolo platonico di incontrare simultaneamente se stesso nell'altro, pur mantenendo l'autonomia degli individui, non sembra più accadere. Si oscilla tra la perdita di sé e il rigido mantenimento narcisistico della propria identità, senza mai ricomporre un disegno coerente di se stessi e delle proprie relazioni (cfr. R. BARTHES, Fragments d'un discours amoureux, 1977). L'incapacità di mediare tra il desiderio di fusione completa e quello di autonomia sconta oggi un paradosso della modernità, quello della nascita dell'A.-passione. Considerato, più che un sentimento, un mezzo di «comunicazione» tra le persone, l'A. diventa prevalentemente «passione» nel momento in cui le società tradizionali, gerarchicamente stratificate, cominciano a differenziarsi al proprio interno. Crescendo la distanza e l'isolamento tra gli individui, esso si trasforma nel rinnovato, disperato, simultaneo sforzo per dare maggiore libertà all'esistenza dei singoli e per rafforzare la compagine sociale. Si afferma così, a partire dalla fine del Settecento, la volontà di fondare il matrimonio esclusivamente sull'A., ancorandone – soprattutto con il Romanticismo – l'intima instabilità alle istituzioni, proprio mentre si inseriscono in esse forti motivazioni soggettive (cfr. N. LUHMANN, Liebe als Passion, 1982). Questo ideale di perfezione, che tentava di coniugare insieme perdita di identità e guadagno di identità, conquista dell'altro e sottomissione di se stesso, si starebbe oggi smarrendo, in quanto si rinuncerebbe a cercare nell'altro la conferma di sé e ci si contenterebbe di condividere insieme esperienze e vita sessuale, in ciò favoriti dalla contemporanea possibilità di separare il piacere dalla procreazione. Quest'ultimo aspetto, che complica le manifestazioni della sessualità rispetto alla trama dei sentimenti amorosi, contiene però anche dei vantaggi. Emancipa, in particolare, la donna da quello che prima appariva come mero destino biologico e le apre una rinnovata sfera dell'intimità e degli affetti in cui tutto dovrà gradualmente cambiare (cfr. A. GIDDENS, The Transformation of Intimacy. Sexuality, Love and Eroticism in Modern Societies, 1992).

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