La
sessualità è evidentemente connessa con il piacere, ma il piacere stesso è
difficile da definire. È piacere l’estasi di fronte ad un
capolavoro artistico, è piacere il grido che accompagna il gol della squadra
del cuore, è piacere l’acqua che scorre nella gola dell’assetato; piacere è
divertimento, esaltazione, serenità, distensione, interesse, soddisfazione,
godimento, benessere, euforia, gioia, allegria, sollievo, compiacimento.
Non c’è
area dell’esistenza umana che non possa diventare occasione di piacere e sembra
che tutti i più diversi piaceri (fisici, estetici, spirituali, intellettuali,
etici) abbiano una comune profondissima radice: il
piacere di esistere, di esserci, di vivere, di essere se stessi. La depressione
è la malattia che spegne questa radice di tutti i piaceri e trasforma l’esistenza in un peso
insopportabile.
Per
questo è possibile provare piacere anche in situazioni drammatiche, come
l’imminenza della propria morte personale, se si avverte che con essa si
realizza il pieno compimento della propria umanità.
Il
dolore, al contrario, è sempre un segnale della presenza di una minaccia alla
nostra esistenza. In ciò, ad esempio, sta l’enorme utilità del dolore fisico
che ci avverte che qualcosa sta danneggiando il nostro corpo e che quindi dobbiamo prendere
immediati provvedimenti; il che non succede in quei soggetti con danni
neurologici che impediscono di avvertire il dolore e che fatalmente vanno
incontro a ustioni, traumi e malattie non curate.
In
pratica dunque piacere e dolore sono dei cartelli indicatori che ci segnalano
il primo la strada della pienezza di vita, il secondo la via che conduce alla
morte. Con ciò non si tratta di riaffermare una posizione scioccamente
edonista, tutt’altro. L’uomo che ha coscienza di sé e ricerca la pienezza della
sua umanità sa rinunciare di buon grado a
piaceri e soddisfazioni momentanei e sa impegnarsi in compiti che richiedono
sacrificio, e tutto ciò non nello spirito dell’autopunizione ma come
preparazione per il raggiungimento di un piacere più profondo e definitivo.
L’esistenza
è regolata dunque da una gerarchia di piaceri e l’uomo sceglie per sé quelli
che reputa più importanti anche se sono meno immediati. Il
peccato in fondo consiste proprio nell’opposto: la volontaria ricerca della
propria morte, del proprio danno; in ciò sta l’offesa alla vita ed al suo
Creatore.
Nella
nostra cultura troppo spesso il piacere è stato visto come tranello del demonio
e quindi contrapposto al bene morale che si ottiene solo attraverso rinunce e
sacrifici offerti al Signore quasi in modo propiziatorio. In verità Dio ci ha
creato per essere eternamente felici in unione con Lui ed il “vero”, il
“buono”, il “bello” sono occasioni per l’unico piacere autentico di cui è
capace l’uomo: il piacere spirituale.
La
ricerca del proprio piacere non conduce affatto all’egoismo ed alla lotta per
la sopraffazione dell’altro. Il piacere personale infatti non è
in alcun modo in contrasto con il piacere altrui, ma anzi se ne accresce.
L’egoista non soltanto pensa solo a se stesso, ma lo fa in modo sbagliato,
meschino, senza guardare al futuro e quindi, in fin dei conti, danneggia in
primo luogo se stesso: prima ancora che cattivo, è sciocco e miope.
Si
pensi ad esempio al più tipico dei piaceri: quello sessuale. Tutti sappiamo che
il massimo del piacere lo si prova proprio nel rendersi conto di essere motivo
di estremo piacere per il partner: il proprio piacere consiste
nell’essere piacere per l’altro. E poiché per l’altro è la
stessa cosa, non posso dargli piacere se non permettendogli di farmi, a sua
volta, felice. In questo modo non sussistono più due individualità in
competizione per qualcosa, ma una comunione che è felicità per essere l’uno
dono per l’altro.
Il
piacere non è mai possesso ed anzi chi “ha” molte cose spesso non riesce a
goderne perché, distratto da esse, perde se stesso, si aliena, mentre il
vero piacere ci conduce sempre dentro di noi alla radice dell’essere.
Educare
al piacere significa dunque abituare a gioire della vita che ci è stata data, a
stare in pace con se stessi e con gli altri, a conoscersi sempre di più, ad
amarsi e rispettarsi perché siamo importanti agli occhi di Dio.
Concludendo:
il piacere per la Chiesa non è una cosa brutta: l’ha fatto Dio, fa parte della
creazione, sveglia l’uomo, lo spinge ad uscire da sé, ci fa scoprire che non
possiamo essere felici da soli. Il piacere è legato ad esperienze limitate nel
tempo, è come un dito che indica la necessità della gioia. Quando il piacere è
finito, se c’è l’amore rimane la tenerezza, altrimenti rimane il vuoto e una
sorta di amarezza che ha anche una definizione psicologica: “depressione post
coito”.
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