Il termine “gender”
non è più sinonimo di identità sessuale, ma viene invece utilizzato in modo
distinto dal termine “sesso” . Ciò esprime l’idea, oggi diffusa, che l’identità
sessuale di una persona può essere differente - se non addirittura opposta - da
quella che ha per natura (sesso).
Ciò che sta a monte di tale mentalità
è un concetto profondamente sbagliato di antropologia, dove il corpo
umano non è parte essenziale e integrale dell’identità personale di un
individuo. La conseguenza di una tale concezione
frammentata di uomo, fa sì che possa essere ritenuto normale
che l'identità sessuale e il sesso definito oggettivamente
(biologicamente) dal corpo non
coincidano.
L'antropologia - cioè la concezione dell'uomo -
sostenuta dalla Chiesa,
vede invece l'uomo
come un tutt'uno: è un’ antropologia “integrata”,
dove cioè l’identità personale si identifica con l'anima e con il corpo, il
quale ha una propria dignità e valore. L’identità sessuale (il cosiddetto gender) è quindi legata al corpo così come
oggettivamente (biologicamente) strutturato e definito.
Educare alle differenze
Le ragazze sentono meglio dei maschi,
così come sono biologicamente differenti le capacità percettive della vista.
Negare questa differenza non aiuta ad educare, né aiuta a non disprezzare
l'altro, invita semmai a disprezzare se stessi e il proprio corpo perché
incapace di fare alcune cose in luogo di altre. Il cervello dei maschi e delle
femmine organizza in modo diverso lo spazio, così come le stesse informazioni:
“Avendo proporzionalmente più materia bianca, e quindi molte connessioni
sinaptiche, una rete associativa maggiore e articolata, l’elaborazione delle
informazioni nelle donne, sembra essere caratterizzata da combinazione,
associazione, e quindi preludere a una migliore capacità in attività come il
linguaggio”[2].
Un aspetto che viene sottointeso ma
che il linguaggio spesso non coglie è che “diverso” non vuol dire “peggiore”,
ma semplicemente “differente”. L'ideologia gender, sembra ossessionata
dall'idea di appiattimento delle differenze: tutti uguali, tutti individui ma
nessun legame, neppure con se stessi e la propria fisicità. I tentativi
di annullare le differenze non sono segno di una società più democratica,
semmai di una più totalitaria.
Vent'anni fa, quando frequentavo l'università, nei miei corsi m'imbattei
negli "studi di genere" (gender studies nel mondo
accademico anglosassone), una denominazione che raccoglie ricerche filosofiche,
sociologiche e psicologiche che studiavano il femminile e successivamente il
maschile. Queste riflessioni nascevano dalla presa di consapevolezza che
l'immagine della donna, e il suo posto nella società, erano determinati da una
cultura a predominanza maschile la quale perpetuava un'idea d'inferiorità e una
pratica di subordinazione della donna.
L'obiettivo era la comprensione dell'identità e della differenza femminile,
nella misura in cui non dipendono dal dato biologico, ma da un'elaborazione
simbolica e culturale. Un esempio banale e immediato è l'idea, per lungo tempo
universalmente accettata, dell'inferiorità intellettuale della donna
escludendola così dalla vita politica e dagli studi. Sulla stessa linea,
i gender studies hanno inevitabilmente cominciato a occuparsi
delle omosessualità, le quali sollevano questioni particolari.
Il punto è che le teorie formulate in proposito sono tante e molto diverse.
Le rappresentazioni a cui ho accennato sono perciò forzature arbitrarie, perché
non rispecchiano la realtà. Solo le teorie più radicali postulano
un'insignificanza della differenza biologica e più a monte antropologica, con i
rischi di destabilizzazione sociale e di disintegrazione dell'identità
dell'umano denunciati dal magistero. È un fraintendimento che chiude la porta,
nel mondo cattolico, a un confronto sereno perché tante questioni e prospettive
sono accomunate indebitamente sotto l'etichetta dispregiativa del gender.
Così, si butta via con l'acqua sporca il bambino di un patrimonio di pensiero
che aiuta a riconoscere e valorizzare pienamente nella società, ma anche nella
chiesa, le ricchezze del maschile e del femminile. Vuol dire non riuscire
comprendere fino in fondo l'immagine di Dio nel "maschio e femmina li
creò" di Genesi.
Se non sappiamo pensare il femminile al di là di costumi e rappresentazioni
stereotipate, per esempio, come comprendere l'esercizio della maternità
nell'economica, nella politica, nella scienza, al di là dell'atto di generare
fisicamente i figli? E lo stesso vale per il maschile. E oltre la maternità e
la paternità?
Dieci anni fa, Franco Giulio Brambilla, oggi vescovo di Novara, denunciava
un ritardo nell'antropologia cristiana: tra l'identità profonda e la sua
realizzazione sta la cultura, cioè gli usi e costumi che strutturano la
coscienza e le relazioni. In che cosa consiste una cultura cristiana
dell'identità di genere? In altre parole, come la fede cristiana fa discernere
e vivere concretamente nel quotidiano la verità dell'essere uomo e donna?
Certo, questo vuol dire rompere relazioni di potere che fa comodo mantenere.
Pensiamo alla discussione sulle donne nelle liste elettorali...
Lo sa bene papa Francesco, quando pone il problema dell'accesso delle donne
a ruoli decisionali nella chiesa (cfr. Evangelii gaudium 104).
Lo sanno anche meglio tante teologhe, religiose e laiche, che ben conoscono
questi temi e la cui voce trova ancora poco spazio.
Tra loro, ricordo Serena Noceti, vice presidente dell'Associazione
Teologica Italiana, che ha da poco pubblicato un interessante testo, «Sex
gender system: una prospettiva?» (in AA.VV., Avendo qualcosa da
dire. Teologhe e teologi rileggono il Vaticano II, Paoline 2014), che aiuta
a farsi idee più precise. Richiamo solo due passaggi.
«La domanda sull'identità di uomini e donne si colloca al crocevia tra natura e cultura, senza riduzioni indebite e insostenibili al solo dato della differenza biologica e genetica, senza restringimenti a letture statiche dei "ruoli sociali"». Ciò significa smascherare false idee di natura, risalenti a una filosofia essenzialista e astorica, che legittimano la marginalizzazione femminile anche in ambito religioso. Infatti, nei documenti della chiesa «il soggetto umano è presentato in modo apparentemente neutro. Oggi siamo più avvertiti del fatto che in realtà ogni theoria antropologica occidentale nasce e si sviluppa intorno a un codice androcentrico, intorno a un maschile universalizzato e dichiarato neutro. La prospettiva di gender permette di decodificare l'implicito, di criticare i concetti falsamente universali di persona, individuo, soggetto ecclesiale, di svelare i meccanismi simbolici del maschile e del femminile nella liturgia, nel dire Dio e l'uomo, nel pensare la rivelazione e la storia della salvezza, nel definire la Chiesa (ad esempio le metafore femminili di sposa e madre)»[3].
«La domanda sull'identità di uomini e donne si colloca al crocevia tra natura e cultura, senza riduzioni indebite e insostenibili al solo dato della differenza biologica e genetica, senza restringimenti a letture statiche dei "ruoli sociali"». Ciò significa smascherare false idee di natura, risalenti a una filosofia essenzialista e astorica, che legittimano la marginalizzazione femminile anche in ambito religioso. Infatti, nei documenti della chiesa «il soggetto umano è presentato in modo apparentemente neutro. Oggi siamo più avvertiti del fatto che in realtà ogni theoria antropologica occidentale nasce e si sviluppa intorno a un codice androcentrico, intorno a un maschile universalizzato e dichiarato neutro. La prospettiva di gender permette di decodificare l'implicito, di criticare i concetti falsamente universali di persona, individuo, soggetto ecclesiale, di svelare i meccanismi simbolici del maschile e del femminile nella liturgia, nel dire Dio e l'uomo, nel pensare la rivelazione e la storia della salvezza, nel definire la Chiesa (ad esempio le metafore femminili di sposa e madre)»[3].
[1]
Dall'introduzione
al saggio “Educare
al femminile e al maschile” (Paoline) di Tonino Cantelmi e Marco Scicchitano che spiegano: “prima
c’è sempre la persona con la sua unicità, carattere e storia
personale. Inoltre, è bene sapere che, soprattutto per quanto riguarda le
differenze fisiologiche cerebrali, queste sono riscontrabili soprattutto nella
fase di sviluppo compresa tra i sette e i diciotto anni, per poi attenuarsi
molto”.
[2]
Uno
studio molto importante di Richard Haier ha ottenuto il risultato di
mostrare che esiste una differenza tra il cervello maschile e il cervello
femminile. A parità di intelligenza la massa cerebrale dei maschi era composta
proporzionalmente da molti più neuroni (5-6 volte maggiore rispetto alle
donne), sede dei centri di elaborazione delle informazioni, mentre in quello
femminile si riscontrava una maggiore presenza di glia, o materia bianca, il tessuto fisiologico che
connette i vari centri (10 volte superiore rispetto agli uomini). Come abbiamo
visto, a una differenza strutturale spesso corrisponde una differenza
funzionale e i dati della ricerca di Haier suggeriscono che l’elaborazione
cerebrale delle informazioni avvenga in modo differente nei maschi e nelle
femmine.
[3] C.
Albini, Gli equivoci del “gender”, in
Vino nuovo, 27.03.2014: http://www.vinonuovo.it/index.php?l=it&art=1639
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