L’esperienza umana dell’amore è sicuramente centrale e insieme ambigua.
La parola stessa offre una gamma talmente varia di accezioni da richiedere
distinzioni e chiarimenti continui. Per questo la teologia prende in prestito
dall’antica cultura greca la triplice espressione dell’amore distinta in Eros, Filia
e Agape.
L’eros (da cui amore erotico)
indica l’amore passionale, l’attrazione erotica tra un uomo e una donna, il
desiderio di possedere l’altro/a. Nella Bibbia viene narrato in particolare nel
Cantico dei Cantici: “Forte come la morte
è l’amore, tenace come il regno dei morti è la passione: le sue vampe sono
vampe di fuoco, una fiamma viva” (Cant. 8,6). E’ assente nel Nuovo
Testamento.
La philia è “amicizia”, amore
fraterno, indica un amore umano fatto di affetto, attrazione, gradimento,
affezione, simpatia[1].
E’ l’amore di dilezione, caratterizzato dal sentimento della gioia che si prova
nello stare con l’altro, condividendone gioie, dolori, speranze. Tale termine
trova ampio uso nel Vangelo di Giovanni, sotto la forma dell’aggettivo phìlos,
per indicare il rapporto che Gesù ha con i suoi discepoli.
L’agape è l’amore divino,
limpido e puro[2].
Porta a desiderare il bene dell’altro (la sua felicità) prima ancora del
nostro. E’ un amore cosmico, che spinge ad amare ogni persona aldilà che essa
risulti amabile o che “meriti” il nostro amore. Questo è l’amore che Dio ha per
noi, la sua stessa essenza, il suo naturale modo di operare: ama tutti e
ciascuno come fosse unico; ama sempre, in ogni situazione; ama gratuitamente,
senza attendere di essere riamato. Un amore simile è quello espresso, con i
limiti umani, da un padre o una madre nei confronti dei figli (amati in maniera
gratuita). In sintesi: l’agape è amore gratuito, generoso, universale ed
assoluto, misericordioso, che si fa dono (ossia di una gratuità totale) che non
va meritato, ma accolto, per poi farlo fiorire in gesti d'amore verso gli
altri.
L’eros e l’agape sono
termini greci che verranno tradotti in latino con amor e caritas[3], spesso
contrapposti in "amor concupiscientiae" e "amor
benevolentiae". Secondo una tale distinzione, l’eros è quella forma di amore che,
conformemente alla concezione greca, viene messa in moto da qualcosa che ci
appare desiderabile, attraente, ed in questo senso bello; ed attraente e
desiderabile è anzitutto ciò che ci manca, ciò di cui pertanto vogliamo entrare
in possesso per completare o potenziare noi stessi. In questo senso, l’eros descrive quella direzione immediata e
naturale del desiderio umano che tende al soddisfacimento di un bisogno e che,
anche quando si esprime nella richiesta di un legame affettivo, mira
all’appagamento (emotivamente) gratificante di sé, in un movimento
sostanzialmente egocentrico che ci spinge a relazionarci all’altro per
soddisfare o realizzare noi stessi. L’"amor benevolentiae", l’agápe come dono di sé, descriverebbe invece
una dimensione completamente diversa ed intrinsecamente estranea all’esperienza
e alla forma naturale che il desiderio amoroso assume nella sua dimensione
affettiva, passionale o erotica; descrive, cioè, quella morale dell’amore
disinteressato alla quale si può pervenire solo abbandonando ogni interesse per
se stessi, in quell’etica, per così dire, eroica — e quindi eccezionale — del
sacrificio entro la quale la cultura occidentale ha spesso collocato la
dimensione dell’agápe, la logica del dono[4].
“Una indicazione importante la possiamo trovare nel Cantico
dei Cantici, uno dei libri dell'Antico Testamento ben noto ai mistici.
Secondo l'interpretazione oggi prevalente, le poesie contenute in questo libro
sono originariamente canti d'amore, forse previsti per una festa di nozze
israelitica, nella quale dovevano esaltare l'amore coniugale. In tale contesto
è molto istruttivo il fatto che, nel corso del libro, si trovano due parole
diverse per indicare l'« amore ». Dapprima vi è la parola « dodim » — un plurale che esprime l'amore
ancora insicuro, in una situazione di ricerca indeterminata. Questa parola
viene poi sostituita dalla parola « ahabà », che nella traduzione greca
dell'Antico Testamento è resa col termine di simile suono « agape » che, come abbiamo visto, diventò
l'espressione caratteristica per la concezione biblica dell'amore. In
opposizione all'amore indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo
esprime l'esperienza dell'amore che diventa ora veramente scoperta dell'altro,
superando il carattere egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l'amore diventa cura dell'altro e per
l'altro. Non cerca più se stesso,
l'immersione nell'ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell'amato:
diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca.
Fa parte degli sviluppi dell'amore verso livelli più alti, verso
le sue intime purificazioni, che esso cerchi ora la definitività, e ciò in un
duplice senso: nel senso dell'esclusività
— « solo quest'unica persona » — e nel senso del « per sempre ». L'amore comprende la totalità dell'esistenza in ogni
sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente,
perché la sua promessa mira al definitivo: l'amore mira all'eternità[5].
L’amore di amicizia, che nasce dal desiderio ma va oltre e
aspira al bene dell’altro gode di quello che ha e desidera essere riamato e in
questo trova la sua realizzazione e felicità. Il suo limite è amare il bello e
ciò che piace, perciò non riesce ad amare il misero, il povero, il brutto… Ma
c’è una terza dimensione dell’amore chiamata “agape” è l’amore
gratuito, quello portato da Gesù sulla terra e diffuso nei nostri cuori nel
giorno del battesimo: la carità. Naturalmente, come sostiene Benedetto XVI in
Deus Caritas est, nella vita queste tre
espressioni dell’amore sono mescolate tra loro e costituiscono la spinta alla
realizzazione nella carità che è il vincolo della perfezione.
La carità non si oppone alla capacità umana di amare, anzi,
la illumina, la potenzia, la purifica, la porta alla massima tensione e misura.
Il nostro compito è lasciar scorrere la carità così che l’amore venga
divinizzato e si manifesti come amore umano divino.
Quali sono le caratteristiche tipiche della carità? È un amore sempre
nuovo, che prende sempre l'iniziativa, trova sempre
modi impensati per manifestarsi, non si lascia codificare: è un amore
universale perciò “ama tutti” buoni e cattivi, ama sempre “per primo”, è un amore
disinteressato, gratuito, ama “come sé”, “vede Gesù” nel
prossimo, si “fa uno” con l'amato,
porta ad essere “dono di sé” fino al sacrificio, è un amore “senza misura” che tende
alla pienezza della comunione nella “reciprocità”.
Nel Nuovo Testamento l’agape:
-
è sempre riferita a Dio, che è la fonte
dell’amore (e che è amore!).
-
di conseguenza l’agape è un carisma, un
dono che viene da Dio, mediante lo Spirito santo (cfr. Rm 5,5; Gal 5,22). Più
precisamente, l’amore è il carisma
per eccellenza, la condizione necessaria all’esistenza di ogni altro carisma,
come appare chiaramente dal grande inno paolino di 1Cor 13: “La carità non avrà
mai fine…Rimangono fede, speranza e carità, ma di queste più grande è la
carità” (1Cor 13,8.13).
-
è il comandamento nuovo che Gesù ha
dato ai suoi discepoli: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv
13,34; 15,12); questo “come” ha un valore fondante e costitutivo, nel senso che
Gesù ha amato i suoi con lo stesso amore che il Padre aveva per lui. Per
Giovanni l’agape chiude dunque il cerchio dei rapporti tra il Padre, il Figlio
e i cristiani, istaurando in essi una comunione che ha per fondamento l’amore
di Dio e come legge intrinseca il permanere di questo amore[6].
[1]
Il verbo fileo, di cui l’etimologia è
sconosciuta, è utilizzato 33 volte nella LXX; solo 10 delle quali per tradurre
il verbo ebraico ‘ahab, amare. Più spesso si utilizza nel senso di abbracciare
o baciare (Cf. Ct 1,2); l’unica accezione religiosa si legge in Pro 8,17. Nella
letteratura greca fileo è il verbo più frequente per esprimere l’amore, anche
appassionato o fisico, la tenerezza che si manifesta nel bacio, l’affetto,
l’amicizia, ecc.; indica fondamentalmente un sentimento in cui si mantiene il
controllo di sé; implica misura e nobiltà; infine fileo comporta piacere e
gioia.
[2]
Il verbo agapào, la cui etimologia è
ugualmente sconosciuta, indica, nella sua accezione fondamentale, benevolenza,
cordialità, liberalità. Implica un giudizio di valore: stimare, apprezzare e
anche ammirare; di conseguenza una sfumatura di preferenza; questo termine è
usato nella letteratura antica più normalmente per le relazioni tra persone
ineguali: il superiore verso l’inferiore, con la sfumatura di condiscendenza,
di volontà di fare del bene; mentre chi riceve dal superiore, manifesta un
amore di gratitudine. Platone ha sottolineato l’aspetto gioioso inerente
all’amore, mentre Aristotele ha insistito sul disinteresse dell’amore, di cui
l’espressione più pura è data dalla madre verso il figlio; l’amore va fino al
dono di se stesso.
Nella LXX, agapao ricorre
268 volte e traduce il verbo ebraico ‘ahab 180 volte; è usato per tutte le
sfumature dell’amore: come attaccamento di un padre per suo figlio, di un uomo
per la sua sposa. Quando si dice che Dio ama, questo implica gratuità,
generosità, e Dio chiede in cambio l’amore fedele dell’uomo.
[3]
Si pensi all’antico inno, di cui parleremo più diffusamente, “ubi caritas et
amor ibi Deus est”, da cui la celebre canzone liturgica il cui titolo traduce
tale frase: “Dov’è carità e amore lì c’è Dio”. Questa attestazione denota come
i due termini in origine non sono visti in opposizione come fa A. Nygren nel
suo classico Eros e agape. La nozione
cristiana dell’amore e le sue trasformazioni (Il Mulino, Bologna 1971). I
padri greci descrivono l’amore di Dio per l’umanità come eros in quanto amore
passionale, “amore folle”.
[4] E.
Peroli, Eros e agápe: dal
conflitto-esclusione all’unità-comunione: http://www.collevalenza.it/CeSAM/08_CeSAM_0024.htm
[5]
Benedetto XVI, DCE, n.6
[6] E.
Bianchi, L’amore vince la morte, p.138-139.
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