L’amore è una realtà meravigliosa,

è l’unica forza che può veramente trasformare il cosmo, il mondo!

(Benedetto XVI)



venerdì 13 marzo 2015

Il racconto dell'amore

Aristide Fumagalli
il raccontodellamore

L'amore tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
Il racconto dell'amore è il racconto di colui che è questo amore, è il racconto di Dio. Dio è amore, agàpe come eros (Benedetto XVI), e si racconta a noi nella sua Parola.
Le seguenti meditazioni sono state proposte da don Aristide Fumagalli, docente di Teologia Morale, per gli Esercizi Spirituali dei giovani della città di Milano nell'Avvento del 2006.
Seveso, 22 febbraio 2007.
Festa della Cattedra di san Pietro.

INTRODUZIONE
Prima di brillare negli occhi, esprimersi in parole, manifestarsi nel gesto, l'amore germina nel cuore, ove Dio ama seminarlo. «Noi amiamo, - osserva Giovanni - perché egli ci ha amati per primo» (1 Gv 4,19); «perché l'amore di Dio - spiega ulteriormente Paolo - è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).
L'amore di Dio, seminato dallo Spirito nel cuore di uomini e donne, aspira ad innervare l'intera loro persona, perché si disponga al dono totale di sé che l'amore per l'altro/a invoca ed esige. Quando l'amore seminato trova un cuore disponibile, allora, come un seme può germogliare e produrre frutto. Al triplice germoglio dello Spirito d'amore nella vita personale di uomini e donne, la teologia - fin da Paolo - ha dato il nome di fede, speranza e carità, nominate in seguito «virtù teologali».
Di questi tre germogli dell'amore si racconta in questa pagine. Tre parabole guideranno l'esercizio di lettura e meditazione, raccontando di semi che, nella terra, germogliano, crescono, danno frutto. Più in profondità, le parabole raccontano di come l'amore di Dio, seminato nel cuore di un giovane, possa dar frutto nella vita amorosa.
Se è vero che la parola di Dio, come una spada a doppio taglio, penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, scrutando i sentimenti e i pensieri del cuore (cf Eb 4,12), allora esercitarsi spiritualmente significa non sottrarre il cuore all'ascolto, affinché la Parola di Dio lo raggiunga e, raggiungendolo, sfrondi i germogli dell'amore da ciò che insidia la sua fioritura nella vita.

TUTTO CREDE
Gesù parlò loro di molte cose in parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. E mentre seminava una parte del seme cadde sulla strada e vennero gli uccelli e la divorarono. Un'altra parte cadde in luogo sassoso, dove non c'era molta terra; subito germogliò, perché il terreno non era profondo. Ma, spuntato il sole, restò bruciata e non avendo radici si seccò. Un'altra parte cadde sulle spine e le spine crebbero e la soffocarono. Un'altra parte cadde sulla terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta. Chi ha orecchi intenda. [...] Voi dunque intendete la parabola del seminatore: tutte le volte che uno ascolta la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato nel terreno sassoso è l'uomo che ascolta la parola e subito l'accoglie con gioia, ma non ha radice in sé ed è incostante, sicché appena giunge una tribolazione o persecuzione a causa della parola, egli ne resta scandalizzato. Quello seminato tra le spine è colui che ascolta la parola, ma la preoccupazione del mondo e l'inganno della ricchezza soffocano la parola ed essa non dà frutto. Quello seminato nella terra buona è colui che ascolta la parola e la comprende; questi dà frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta» (Mt 13,3-9.18-23).
La parabola mette subito in scena il seminatore. È lui l'attore principale che per primo calpesta la scena evangelica, ed è subito al suo originale modo di seminare che siamo invitati a guardare. Egli sparge il seme a piene mani, gettandolo in abbondanza, quasi senza calcolo, persino su di un suolo che si presenta inadatto.
Perché il seminatore della parabola evangelica semina nel modo descritto? Per incapacità, imperizia? Oppure per incoscienza? O forse per noncuranza e - diciamolo - menefreghismo?
Ciò a cui egli mira apparirà chiaro solé al termine della parabola, ma fin dall'inizio, dalla sua semina abbondante e disinteressata traspare la fiducia nella produttività del seme. La sua semina racconta della fede di chi confida che, in un modo o nell'altro, l'amore seminato susciterà interesse e risposta, di chi sa che, presto o tardi, prima o poi, l'amore farà breccia in coloro cui è offerto. Il seminatore della parabola racconta, anzi- tutto, dell'incrollabile fiducia divina nella forza dell'amore annunciato agli uomini da Cristo. Il seminatore è l'immagine di Colui che, in amore, tutto crede possibile. Il suo amore si offre gratis, nessuno escludendo. A tutti l'amore divino si offre senza calcolare in anticipo la corrispondenza; sembra quasi che giochi d'azzardo, puntando anche laddove le condizioni non appaiono favorevoli.
Come questa incrollabile fede nell'amore può trasmettersi agli uomini? Come il seme di un amore che tutto crede possibile può germinare nel cuore giovane di un uomo e di una donna?
Il seguito della parabola, inseguendo la traiettoria del seme sparso dal seminatore, invita a concentrare l'attenzione sui vari tipi di terreno in cui cade. La loro diversa qualità racconta degli ostacoli, delle resistenze e dei pericoli che l'amore, seminato da Dio nel cuore umano, può incontrare; racconta però anche delle condizioni favorevoli che gli permettono di produrre una fede incrollabile nell'amore.
Invitando a identificarci non con il seme ma con i diversi terreni, la parabola lascia intendere che l'amore non è un prodotto dell'uomo e della donna, per quanto giovani e innamorati possano essere: essi sono il terreno in cui l'amore può dare frutto, rendendoli capaci di amare, a loro volta, con la stessa fede del seminatore. L'amore, però, non nasce da loro, come il seme non è generato dalla terra: nei loro cuori terreni l'amore è posto dal Padre celeste.
Le possibili diverse disposizioni nei confronti dell'amore seminato da Dio nei cuori umani sono, dunque, illustrate dalla diversa fertilità dei terreni della parabola. Per la verità, più che di fertilità si dovrebbe parlare del suo contrario, di sterilità. Tre parti delle quattro seminate, infatti, non producono frutto. Le cause della mancata fruttuosità sono di diversa natura.
Una prima parte di seme cade sulla strada e per questo viene subito divorata dagli uccelli. La spiegazione offerta da Gesù ai discepoli in separata sede associa questa prima tipologia a coloro che ascoltano senza comprendere «la parola del regno», la quale, restando incustodita nel cuore, viene sottratta dal maligno. Considerando la parola del regno come l'annuncio dell'amore divino, si può paragonare il primo terreno alla disposizione di chi non espone il cuore all'amore, che viene trattenuto sulla soglia della propria vita. Il contatto con l'amore annunciato e vissuto da Cristo rimane a fior di pelle, occasionale e fugace. Quand'è così non
tarderà a farsi avanti la tentazione maligna di non credere in un amore che può coinvolgere la vita o, se si vuole, di credere che non esista un amore che vada al di là dell'emozione di qualche momento magico della vita. Allora, anche l'amore per un uomo o una donna verrà vissuto all'insegna del 'mordi e fuggi', nel solo spazio degli attimi, così spesso sfuggenti, concessi dall'innamoramento. La fede nell'amore sarà così stata rubata dal cuore, proprio come il seme viene beccato via dagli uccelli sulla strada.
La seconda parte del seme cade tra i sassi, ove, non potendo mettere radici profonde a causa della poca terra, viene presto bruciato dal sole; la scarsa acqua presente nel terreno non è sufficiente per evitare che si secchi. Nella spiegazione Gesù paragona il terreno sassoso all'uomo che, pur ascoltando la parola del regno, a causa della sua incostanza non le permette di radicarsi nel cuore, cosicché le difficoltà della sua crescita non vengono superate. In questo caso, l'amore divino ha oltrepassato la superficialità della vita e raggiunto il cuore. È la condizione, per esempio, di un giovane rimasto affascinato dall'amore raccontato in vita e, soprattutto, in morte, da Cristo. Un amore disposto a morire per altri è un amore che supera la prova suprema di autenticità. Quando uno sacrifica la sua per la vita di un altro, ogni ombra di dubbio o di possibile equivoco sulla qualità del suo amore scompare.
Non è forse il segreto desiderio di chi s'innamora che un giorno si possa raccontare di lui / di lei ciò che l'evangelista Giovanni riferisce di Gesù, dicendo che egli, «dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine»? (Gv 13,1). Il fascino di un amore «sino alla fine» diviene però efficace solo se ricambiato «sino alla fine». Sennonché, quando un uomo o una donna intuiscono che per amare come Cristo devono «perdere la loro vita» insorge la paura del dono di sé. Se quel tipo di amore essi lo hanno solo ammirato, mapoco frequentato, non saranno in grado di viverlo. O lo riterranno un amare solo «per santi» o ne resteranno schiacciati, perché troppo esigente rispetto alle loro forze. Ciò che non è ricevuto, non può essere donato.
La terza parte del seme cade fra le spine, che ne soffocano la crescita. Questo terreno - spiega Gesù - è immagine, dell'uomo che ascolta la parola del regno, ma è troppo preoccupato di far fronte alle cose del mondo con le sue ricchezze, motivo per cui l'amore in lui seminato non incide fruttuosamente nella sua vita. Ancora oggi - nonostante i foschi giudizi degli immancabili profeti di sventura - non mancano ragazzi e ra gazze affascinati da un amore che sia totale, come quello di Cristo, giovani che accarezzano il sogno di scrivere le loro relazioni di amicizia e, soprattutto, di coppia con l'inchiostro di un amore libero e forte come il Suo. Eppure, anche giovani desiderosi di amare così, come Lui ha amato, possono finire, quasi contro il loro stesso desiderio, per soffocare l'amore in cuore, perché troppo presi dalle occupazioni e gli interessi del vivere. Si sa: ci saranno sempre motivi sufficientemente importanti per rimandare l'appuntamento con l'amore di Cristo, scusandosi di non poter frequentare con più assiduità la sua scuola. Ma il suo amore si presenta - senza mezzi termini - esigente: richiede il primato su qualsivoglia preoccupazione e interesse.
I primi tre tipi di terreno, accomunati dalla loro improduttività, indicano uomini e donne che, per ragioni diverse, pur ascoltando la parola del regno non la comprendono. La capacità di presa dell'amore annunciato e proposto da Cristo non ottiene risultato perché essi non lo «prendono con sé», non si prendono cura di esso. La crisi giunge allora inevitabile, sia essa indotta dall'ostilità esterna, sia essa prodotta dalla debolezza interna: le due cause, in realtà, sono spesso compresenti.
Resterebbe da dire, prima di considerare finalmente la terra buona che dà frutto, che i vari tipi di terreno non identificano solo uomini o donne diversi, ma, talvolta, indicano il modo diverso con cui lo stesso uomo o la stessa donna, in fasi e ambiti diversi della loro vita, si dispongono rispetto all'annuncio e alla pratica dell'amore di Cristo.
L'esito fallimentare del seme gettato sulla strada, tra i sassi e fra le spine mina la fiducia circa la possibilità di trovare un terreno che porti frutto. Il racconto della parabola, però, tiene in serbo la riuscita auspicata, prospettandola dopo aver fatto notare, ripetutamente, il fallimento. Quasi a voler rivolgersi proprio a chi non crede più nell'amore per via dei fallimenti che ha sperimentato, la parabola conclude riferendo della terra buona che dà frutto, con grande abbondanza. La spiegazione di Gesù paragona la terra buona, per la quale il seme produce «dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta», a coloro che ascoltano la parola e la comprendono.
Riferito all'amore, il «comprendere» non riguarda il solo sapere della mente, ma indica la disposizione del cuore di chi lo accoglie. Un eloquente esempio di quanto sia concreto l'ascoltare e il comprendere l'amore di Cristo è narrato nel Vangelo stesso. Raccontando come avvenne la nascita di Gesù, l'evangelista Matteo riferisce di Giuseppe, il quale, rassicurato in sogno dall'annuncio dell'angelo di non temere di prendere con sé Maria, destatosi dal sonno «fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). Comprendere l'amore significa fargli spazio nella propria vita, adattandola affinché l'altro sia ben accolto. Sovviene alla mente l'immagine della donna il cui grembo si dilata a misura della crescita del figlio in esso nascosto.
Comprendere l'amore non è afferrarlo con l'idea di dominarlo. Come la terra buona si offre al seme, includendolo certo, ma accettando poi di essere trapassata dal suo stelo che si ergerà verso il cielo a cercare aria e luce, così un giovane accoglie il Vangelo dell'amore di Cristo concedendogli il cuore, con l'umile coraggio di chi prega Dio dicendo: «Sia fatta la tua volontà». A queste condizioni l'amore divino può portare frutto nell'amore del prossimo, dell'amico/a, dell'amato/a, che non verranno afferrati con l'intenzione, più o meno consapevole, di spremerne la vita a proprio vantaggio, ma saranno accolti in modo che la loro vita fiorisca e dia frutti abbondanti di bene.
Il frutto abbondante giunge nella narrazione della parabola dopo tre fallimenti, ed è prodotto solo da un quarto del seme sparso. Questa inattesa abbondanza, finalmente ottenuta, è l'immagine con cui la parabola di Gesù tratteggia il carattere del suo amore. Nonostante tutto, l'amore cristiano confida nella semina totalmente gratuita: nessuna crisi o fallimento gli impedisce di credere in esso. In un modo o nell'altro l'amore dato continuerà a vivere: qualcuno non mancherà di raccoglierlo e farlo germogliare.

TUTTO SPERA
Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami (Mt 13,31-32).
L'amore, che tutto crede possibile, vive di speranza. La fede che nutre nella risposta dell'amato lo protende in avanti, così come chi ama tende le braccia sperando di essere accolto nell'abbraccio dell'amato. L'intreccio insolubile di fede e speranza, che insieme alla carità sono
chiamate «virtù teologali» perché da Dio provengono e a lui conducono, è narrato nella parabola del granellino di senapa.
L'uomo della parabola può forse immagine della moltitudine di uomini e donne che sperano nella crescita e nella manifestazione grande dell'amore. La narrazione della parabola mira tutta al contrasto tra la piccolezza del seme e la grandezza dell'albero. A tal fine i particolari botanici vengono volutamente esagerati in funzione del messaggio che
s'intende comunicare. La particolarità del linguaggio parabolico è, infatti, proprio quella di stabilire un contatto tra due realtà eterogenee: in questo caso, il mondo vegetale e il regno dei cieli. Dal contatto scatta la scintilla di un'idea nuova, la quale trasforma le due realtà di partenza. È così che il mondo vegetale, ridisegnato con alcuni caratteri del regno dei cieli, ovvero dell'amore di Cristo, consente all'invisibilità del regno di rendersi visibile all'immaginazione. A contatto con la realtà del regno dei cieli, il «granellino di senapa» diviene allora ciò che solo proverbialmente è vero, e cioè «il più piccolo di tutti i semi». La stessa enfasi, all'estremo opposto, viene usata per rappresentare l'albero cresciuto dal seme, descritto come «il più grande», al punto tale «che vengono gli uccelli del cielo e si annidano tra i suoi rami»; il che risulta eccessivo, se è vero che la pianticella di senapa raggiunge, in condizioni favorevoli, un'altezza non superiore ai tre, quattro metri.
Ma come si è detto, la paradossalità dei particolari è funzionale all'annuncio di un messaggio che esonda dalle limitate sponde dell'umana esperienza e immaginazione. Così è dell'amore cristiano quando viene offerto agli uomini. Esso è piccola cosa, meno evidente di altre forme di relazione, chiamate anch'esse «amore». Sembrerebbe incapace di competere con la febbre della passione erotica e il vortice travolgente di un'avventura sentimentale. Di primo acchito, l'amore cristiano sembra più destinato a scomparire che a guadagnare l'audience mediatica e lo share televisivo. Preferisce piuttosto lo stile amoroso del servo descritto dal profeta Isaia: «Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce» (42,2). In effetti, la vicenda dell'amore cristiano prevede un tempo di «scomparsa» su cui lo stesso Gesù attira l'attenzione: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).
Il frutto gustoso dell'amore cristiano non è raccolto «tutto subito», ma anzitutto deve essere atteso. E poiché l'attesa suppone il «non ancora» della pienezza, l'amore cristiano si nutre di speranza. È la speranza dell'uomo del campo che, vedendo il seme scomparire nella zolla, già immagina l'albero che sarà. L'immagine, per ora viva solo nella sua mente, non è un sogno destinato a svanire quando egli finirà di fantasticare, ma trae vita reale dalla potenzialità esplosiva contenuta nel piccolo seme. In esso c'è già tutta l'energia di crescita dell'albero. Così è l'amore, che non teme di scomparire nella vita dell'altro, poiché sa che là comincerà segretamente a suscitare la comunione amorosa. Certo, la temporanea inevidenza dell'amore rende arduo l'amore stesso: si tratta di continuare a seminare amore senza poter già gioire del frutto maturo della comunione con l'amato.
Il tempo tra il seme gettato e l'albero dispiegato è il tempo in cui l'amore prende il nome di speranza. La speranza è forse oggi la forma meno conosciuta eppure più necessaria delle relazioni d'amore. Lo smarrimento della speranza che l'amore presente cresca grande nel futuro priva di slancio non poche storie giovanili d'amore. Le trattiene al di qua di un amore che sia «per sempre», insinua l'idea che il matrimonio indissolubile o la consacrazione perpetua sia l'azzardo di qualche incosciente o, tutt'al più, una scelta alla portata di pochi. A questo dubbio dà man forte la cultura instillata ad arte dai nuovi poteri dell'economia e dell'informazione, che estendono all'amore la logica dei consumi: come ogni prodotto commerciale anche l'amore deve essere velocemente fruibile, facilmente smaltibile e prontamente sostituibile.
Concentrate sul presente, le relazioni amorose finiscono per considerare il futuro come un'incognita insidiosa: appaiono belle oggi, ma disperano circa il domani. Il posto del futuro smarrito viene allora occupato dall'enfasi sul presente, nella presunzione che all'amore basti il qui e ora. Già Lorenzo de' Medici, del resto, suggeriva una simile filosofia per la vita giovanile: «Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c'è certezza». La mancanza di speranza nel futuro dell'amore va a braccetto con la presunta sufficienza dell'amore presente.
La parabola del granellino di senapa, incrociando gli odierni amori giovanili, li invita a non rannicchiarsi nel presente, ma a lasciare che l'amore si sporga sul futuro. Essa rivela che la speranza non è altra cosa dell'amore, ma è il nome dell'amore che già germoglia e va crescendo. La speranza è amore in crescita, è fiducia sicura di vedere già il tutto nel non ancora del piccolo frammento. La speranza allontana l'amore dai due scogli della disperazione circa il futuro dell'amore e della presunzione di rinchiuderlo nel presente. Nonostante la sua attuale invisibilità, l'amore non dispera di raggiungere la comunione piena con l'amato, e nemmeno presume che possa bastare l'unione finora raggiunta, per quanto possa momentaneamente risultare piacevole.
La speranza spinge l'amore oltre il desiderio della piena comunione amorosa con l'amato, dilatandolo sino a far spazio ad altri. Non basta che il granello di senape diventi il più grande dei legumi: come un albero, esso deve consentire agli uccelli del cielo di annidarsi tra i suoi rami. La speranza amorosa trova riscontro nella vicenda di un uomo e di una donna, i quali, crescendo nella comunione si dichiarano il reciproco amore con la frase: «Desidero un figlio da te». Sperare di essere fecondi significa sperimentare la crescita dell'amore, il suo farsi accogliente come un albero sul quale gli uccelli fanno il nido, come il grembo di una donna in cui si annida un bimbo, come il calore di una famiglia in cui nasce un figlio.
Nella tradizione biblica, il motivo dell'albero sul quale convergono gli uccelli del cielo significa l'estendersi di un regno sino a comprendere altre nazioni (Is 10,33-11,1; Ez 31,3-14; Dn 4,7-9). Nel caso della parabola del granellino di senapa l'immagine rimanda al diffondersi dell'amore a tutte le nazioni, così come Gesù prospetta ai suoi inviandoli in missione, dopo la sua resurrezione: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20). L'orizzonte dell'amore cristiano raggiunge gli estremi confini della terra e gli angoli più reconditi del cuore degli uomini che la abitano. Questa fiducia nella sua forza è il fondamento della speranza di chi, al presente, sperimenta solo la sua piccolezza. L'amore tutto spera, spera il tutto nonostante il poco, perché sa che per quanto l'albero sia sproporzionatamente più grande del seme, tra la piccolezza di quest'ultimo e la maestosità del primo non vi è, né può esserci, alcuna soluzione di continuità. La grandezza nasce piccola.
Il punto focale della parabola del granellino di senapa, ovvero il contrasto tra l'inizio insignificante e l'esito eccezionalmente grande è pure il fulcro della parabola gemella del lievito che fermenta una grande quantità di pasta: «Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti» (Mt 13,33).
Tre misure di farina corrispondono a circa sessanta, settanta chilogrammi di pasta, sufficienti per sfamare un centinaio di persone. La gustosa abbondanza di pane è racchiusa nell'invisibilità del lievito. Come il granello di senapa scompariva nella terra, così il lievito viene sommerso dalla pasta, nella quale addirittura si scioglie. Ma proprio il suo perdersi nella miscela permette alla pasta lievitare il pane.
Il perdersi per amore potrebbe essere maldestramente inteso come il 'buttarsi via'. Non sono poi così rare le relazioni pur chiamate «d'amore» che rischiano di annientare chi le vive, in cui magari uno dei due, pur di non dispiacere all'altro, accetta di essere dominato ed annullato. A scanso di questo pericolo, l'insegnamento di Gesù sottolinea che il perdersi non è in nome di un qualsivoglia amore, ma in nome di un amore che sia come il Suo, anzi in nome dell'amore Suo: «Chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,25).
Solo in Lui, come tralci nella vite, si evita il rischio mortale di trovarsi, una volta dato tutto di sé, privati della propria vita. Si può sbagliare in amore, ma non è questo il dramma. Assai peggio è gettarsi in un amore sbagliato. L'amore cristiano ha certo quale tratto distintivo la gratuità, il donarsi gratis. È lo stesso Gesù che lo insegna: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8). Ma la stessa gratuità dell'amore ricevuto da Cristo vieta di lasciare che sia disprezzato. Colpiscono per la loro durezza le parole di Gesù a riguardo: «Non date le cose sante ai ca ni e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi» (Mt 7,6). L'amore cristiano si offre gratuitamente, ma non si ostina a imporlo a chi lo rifiuta, e accetta di perdere la relazione con l'altro piuttosto che il legame con Cristo. È forse eccessivo riferire anche alla stagione giovanile dell'amore l'avvertimento di Gesù: « Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe»? (Mt 10,16).
La lettura della parabola del granellino di senapa ci ha spinto oltre i suoi confini letterari, sino all'incrocio con altri testi evangelici: ma proprio questo è uno dei segreti della lectio divina, leggere la Scrittura con la Scrittura. Alla parabola ora però torniamo per concludere.
Cadendo sul contrasto tra il piccolo seme e l'albero grande, l'accento della parabola mette in luce la tensione che intercorre tra la semina e la fioritura dell'amore cristiano. L'attesa dell'amore, della sua crescita e maturazione comporta fatica. Per questo, la speranza cristiana non si confonde con il facile entusiasmo, si presenta anzi, talvolta, come speranza oltre ogni umana speranza, spes contra spem. In simili circostanze l'amore continua a sperare non perché cieco, ma perché crede nella parola di Gesù: «Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio» (Lc 18,27).

TUTTO SOPPORTA
Un'altra parabola espose loro così: «Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l'una e l'altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio». [...] Poi Gesù lasciò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si accostarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell'uomo. Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, e il nemico che l'ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, intenda!» (Mt 13,2430.36-43).
La zizzania è una graminacea che infesta i campi di grano. Quando la pianta di grano ancora non ha messo la spiga si confonde facilmente con la zizzania, le cui radici sono così abbarbicate a quelle della pianta di grano da non poterle strappare senza comprometterla. Proprio questa particolarità botanica, il fatto cioè che il grano e la zizzania crescano «insieme», costituisce il punto cruciale della parabola. Lo sottolinea anche l'espressione che immaginiamo dipinta sui volti dei servi mentre manifestano il loro sconcerto: «Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania?». Ma l'inquietante sorpresa è destinata a crescere, una volta che si comprenda di che cosa il buon grano e la zizzania vogliano raccontare. Cominciamo dal buon grano.
Il paragone in apertura alla parabola tra il regno dei cieli e l'uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo invita a riconoscere nel grano seminato l'annuncio di Gesù, ovvero l'amore che egli ha raccontato in parole e opere, massimamente con la sua morte e resurrezione. La conferma giunge da Gesù stesso, il quale, spiegando ai suoi discepoli la parabola raccontata alla folla dirà: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell'uomo» (Mt 13,37), titolo con cui Gesù amava presentarsi.
Per contrasto con il significato del buon grano, la zizzania rappresenta ciò che insidia l'amore cristiano sino a soffocarlo. Lo si intuisce dallo stesso significato attribuito nella tradizione rabbinica alla parola zizzania (zunim), la quale evoca il verbo della prostituzione (zanàh), e dunque il tradimento e la corruzione dell'amore. La spiegazione della parabola offerta da Gesù associa, infatti, la zizzania ai «figli del maligno» (Mt 13,38), gli operatori di a-nomia, quanti cioè operano fuori dalla legge (nomos) dell'amore e contro l'amore stesso, ostacolando coloro che lo praticano.
La parabola del buon grano e della zizzania, raccontando dell'intreccio tra il bene dell'amore e il male che vorrebbe soffocarlo, mette in scena la storia umana. In essa, l'amore cresce, ma insieme cresce l'insidia del male. Il dramma di questa crescita congiunta dell'amore e del suo tradimento è al cuore stesso del cristianesimo, il cui annuncio culmina nella pasqua di Gesù, quando egli, «dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1). L'amore di Gesù per i suoi raggiunge la misura più alta e la luminosità più forte non nel giorno della reciproca confidenza, non nella serata dell'amicizia più affettuosa, ma «nella notte in cui fu tradito». In quella notte, Gesù prende tra le sue mani il pane e il vino - la sua vita - e la dona ai suoi. Il suo amore supera ogni misura, crescendo a dismisura proprio quando il male prende la sua piega peggiore, quella del tradimento a morte da parte degli amici più cari. Le parole del salmo ci aiutano a dar voce al suo amore tradito: «Se mi avesse insultato un nemico, l'avrei sopportato; se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma sei tu, mio compagno, mio amico e confidente; ci legava una dolce amicizia, verso la casa di Dio camminavamo in festa» (Sal 54,13-15).
Evocare il tradimento subito da Gesù per raccontare ai giovani dell'amore sembrerebbe di cattivo gusto e male augurante. Eppure la zizzania cresce anche nel giardino fiorito delle amicizie e degli amori giovanili. Anzi, talvolta, proprio in esse manifesta tutta la sua sconcertante presenza. Ci sono amicizie e amori in cui si è convinti di volere il bene dell'altro/a, senza il minimo dubbio che, in realtà, non si tratta del suo bene, ma del bene che noi vogliamo imporgli. Non appena questo viene a galla, quando per esempio l'altro non accetta di essere ciò che vorremmo fosse, quando non si lascia fare ciò desidereremmo fare, quando non concede ciò che per noi è bene, allora la zizzania spunta improvvisa e virulenta, sino talvolta a esplodere in uno di quei tragici delitti che compongono la triste litania delle notizie di cronaca nera. Gli episodi di violenza tra amici e fidanzati sono sempre e solo prodotto di menti malate di follia? O non anche talvolta il frutto di cuori in cui si è lasciato serpeggiare la zizzania dell'egoismo dispotico, che anche in amore vuole solo vassalli e servitori? La grave malattia che affligge costoro non è però anzitutto la presenza della zizzania nel loro cuore, ma la totale assenza del buon grano. Essi hanno forse ingenuamente immaginato di poter amare da se stessi, confidando di riuscire con le sole proprie forze a tenere il male fuori dall'orto del proprio cuore. Ma, per quanto pulito possa essere un campo, se non viene seminato, verrà coperto dalle erbacce.
La zizzania che esplode talvolta nella violenza grave cresce spesso in forma strisciante e subdola. Per imparare a riconoscerla potremmo considerare i tratti dell'amore descritti da Paolo nell'inno alla carità della prima lettera ai Corinzi (13,4-7). L'elenco paolino insegna che l'amore non è invidioso, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia. Se il buon grano dell'amore non è tutto questo, allora la zizzania, che tende a soffocarlo, si manifesta come invidia, superbia, mancanza di rispetto, ricerca del proprio interesse, ira, risentimento, gusto della vendetta. Ognuno di questo germogli maligni sembrerebbe del tutto assente nei legami affettivi e nelle relazioni amorose che sorgono, per esempio, all'interno di un gruppo giovanile. Ma è proprio così? Oppure anche lì la zizzania sempre insidia l'amore, pronta a risvegliare alla prima occasione un'intera vegetazione di pensieri e sentimenti maligni?
La presenza insidiosa della zizzania maligna da cui è segnata l'intera storia umana e ogni relazione amorosa non finirà prima della fine del mondo. Lo dichiara Gesù spiegando la parabola ai suoi discepoli: «Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro» (Mt 13,40-43).
Solo alla fine del mondo, dunque, il buon grano dell'amore e la zizzania del male potranno essere separati e destinati l'uno a risplendere senza più ombre e l'altro alla disintegrazione totale. Questa dilazione del giudizio alla fine dei tempi mette alla prova l'amore, esigendo che esso superi la duplice tentazione dell'illusione e dello sconforto.
Da una parte, a coloro che pur sinceramente si amano è chiesto di non illudersi circa l'assoluta purezza del loro amore: più si stringeranno nell'abbraccio amoroso, anzi, e più probabilmente avvertiranno le spine maligne che lo insidiano. Acquisendo alla spiegazione del vangelo, come del resto faceva Gesù, qualche perla della sapienza popolare, potremmo semplicemente dire: «Ogni rosa ha le sue spine». Dall'altra parte, coloro che si amano non devono rassegnarsi alle presenza delle spine maligne che feriscono l'amore gratuito e libero. Il fatto che in amore non manchino le spine maligne non è il segno che esistono solo rovi, e nemmeno il motivo per rinunciare a coltivare le rose dell'amore, con l'alibi che ci si possa ferire.
Tra i due scogli dell'illusione ingenua e della delusione rassegnata sembrano sballottati gli odierni amori, anche già matrimoniali. Da una parte uomini e donne si illudono che potrà giungere una stagione ideale del loro amore, totalmente priva di ombre e fatiche. Dall'altra, scontrandosi con la realtà anche faticosa dell'amore, uomini e donne finiscono delusi, al punto da rassegnarsi ai ricorrenti litigi o alla definitiva separazione. La vita amorosa sale e scende dall'esaltazione alla depressione, sopra o sotto le righe dell'amore realisticamente vissuto.
Entro questa tensione si comprende l'impazienza di liberarsi dai mali che affliggono l'amore, ben espressa dalla domanda dei servi che, riferendosi alla zizzania, domandano al padrone: «Vuoi che andiamo a coglierla?». L'impazienza dei servi viene però trattenuta dal padrone, che comanda di pazientare sino alla mietitura. L'ordine di essere pazienti potrebbe essere scambiato per timore di combattere il male o, peggio ancora, di connivenza con esso. Non combattere direttamente il male non significa però necessariamente soccombere ad esso. L'esito della parabola insegna che il male non è lasciato crescere insieme all'amore affinché abbia la meglio, ma sopportato solo nella misura in cui cresce anche l'amore e soltanto sino a che l'amore sia maturato. La sopportazione dell'altro non è un impedimento all'amore ma, più frequentemente di quanto non si immagini, è l'esercizio mediante il quale l'amore cresce e matura. 
Nella crescita verso la maturità piena dell'amore, le difficoltà e gli ostacoli non sono incidenti di percorso, disgrazie da evitare ad ogni costo o avversi destini contro i quali imprecare, ma il crogiolo attraverso il quale l'amore si purifica come oro, perdendo ogni scoria. Non si tratta di amare le difficoltà e gli ostacoli, ma di amare anche nelle difficoltà e tra gli ostacoli, sapendo che essi non sono la pietra d'inciampo, ma il gradino mediante il quale l'amore degli uomini viene attirato all'altezza vertiginosa dell'amore di Gesù, secondo le parole della sua promessa: «lo, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32).
Al suo massimo grado, dunque, l'amore che tutto crede e tutto spera possibile, tutto sopporta, tutto cioè porta da sotto, come in braccio, prendendo con sé l'altro, in modo che la sua vita sia sollevata e protetta da ogni inciampo. Soprattutto, pur di amare l'altro, l'amore sopporta il male. Si comporta - secondo l'immagine di un'altra parabola - come il pastore che va in cerca della pecorella smarrita. Una volta ritrovata, invece che spezzarle una gamba (come si usava per addomesticare l'animale inquieto e impedirgli di scorazzare nuovamente lontano dal gregge), il pastore - dice il testo - «se la mette in spalla tutto contento». Questo particolare è altamente espressivo dell'amore che tutto sostiene e copre. Come la pecora è posta sulle spalle robuste del pastore, così l'amore si fa abbraccio che sostiene l'altro nel suo ritorno alla relazione buona. Come il pastore «tutto contento» comunica silenziosamente alla pecora la gioia del ritrovamento, senza infliggerle alcuna punizione, così l'amore per l'altro ritrovato copre la colpa con il perdono, sostenendo robustamente il ravvedimento dell'altro: «Mentre l'odio suscita litigi, l'amore ricopre ogni colpa» (Pr 10,12).
L'amore donato a fronte del male ricevuto è il tratto supremo, più sublime benché drammatico, dell'amore autentico. Un amore così, infatti, corrisponde al supremo grado dell'amore, quello che rende il dono amoroso un dono elevato alla massima potenza, un dono super, un iperdono, il perdono appunto. Forse proprio il perdono è il nome smarrito dalle labbra di non pochi innamorati, tanto perfezionisti nel ricercare la relazione ideale, quanto spietati nel giudicare il minimo errore. Il perdono è il nome di un amore che, come quello di Gesù, non si accontenta di camminare, ma aspira a giungere sino alla fine. Sino all'ultimo giorno la zizzania del male insidierà il buon grano dell'amore. Ma quel giorno, coloro che avranno tutto sopportato perdonando nel nome di Gesù, vedranno risplendere, bello come il sole, l'amore senza fine in cui hanno creduto e sperato.

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