Aldo Natale Terrin
«L'amore è il fiore della vita...».
«Se l'amore non fosse l'unico principio delle virtù,
ogni virtù sarebbe nello stesso tempo un vizio».
(G.W.F. Hegel)
Introduzione
Oggi tutti riconosciamo che le parole si sprecano quando si parla di «amore» e che inevitabilmente, quando affrontiamo questo tema, monta un senso di frustrazione che ci lascia un certo sconcerto, un sospetto che non abbiamo la forza di nascondere, una delusione che ci rende un po' amara la riflessione e ci crea una sottile impotenza dei sentimenti davanti alla quale ci scopriamo segretamente e inconfessabilmente sconfitti. «Je t'aime... moi non plus» dice il titolo della canzone di Serge Gainsbourg e sembra la sintesi di quel discorso che si interrompe appena pronunciato, di quella realtà che si offusca appena se ne intravede la luce che può permearla. Il discorso moderno e post-moderno sull'amore appare come la fine di una fiaba, di una bella storia che non può più continuare, di un sogno che ci ha aiutato a vivere ma di cui ora dobbiamo fare a meno. «Quando non si hanno più illusioni su se stessi, non se ne conservano sugli altri» diceva l'iconoclasta Cioran e pare proprio sia questa la strettoia verso la quale ci siamo incamminati.
Nonostante questa situazione di stallo, questo momento di smarrimento e di crisi, è utile riflettere su quello che ancora chiamiamo «amore», sulla sua forza trainante, sulla realtà che esso potrebbe e dovrebbe veicolare per tutti e in particolare per coloro che sono destinati a vivere insieme e a formare un nucleo familiare.Le riflessioni che io qui svolgerò saranno disordinate di necessità poiché mettere a tema l'amore significa confrontarsi con la vita intera; saranno soltanto indicative e preparatorie perché l'amore è un vissuto che non trova riscontri adeguati nelle parole e non si muove a scambio con una semplice riflessione. Di più – nella mia intenzione – tali note non si caricheranno di significati immediatamente religiosi e cristiani, perché l'amore ha un retroterra che abbraccia ogni realtà e dunque si pone come comprensivo della stessa visione religiosa o cristiana, senza esserne necessariamente determinato. Queste riflessioni nasceranno da semplici considerazioni e da una breve e povera fenomenologia dell'amore umano, senza bisogno di ricorrere a troppe distinzioni che appesantirebbero il testo e non aggiungerebbero molto di significativo. Niente dunque distinzioni tra agape, caritas, amor, dilectio; niente distinzione tra filia e eros, tra «amore di amicizia» e «amore di concupiscenza». Quando infatti si parla di «amore» si dovrebbe analizzare il vocabolario di pressoché tutte le opere letterarie e delle tragedie umane o, meglio, mettere in conto quell'immensa enciclopedia che gli uomini hanno scritto con la loro vita e vissuto nei loro tormenti e nei loro sogni quando hanno dato vita all'amore in tutte le sue forme, i suoi simulacri, le sue illusioni e delusioni.
Un'ultima annotazione: dovendo parlare di un tema così onnicomprensivo si può partire dalla pienezza e dal tutto e si può partire anche dal punto zero. Preferisco partire dal punto zero – nella misura in cui ciò è fattibile – per poter aggiungere qualche unità di misura lungo la via, piuttosto che partire dalla pienezza con il rischio di dover sottrarre poi qualche cosa per l'impossibilità di comprendere o per l'insipienza interna al nostro tempo presente.
Vivere è amare
La persona umana sembra destinata ad amare a ogni costo e contro ogni logica del rapporto, del valore di scambio, contro l'incongruenza o l'inutilità della scelta della persona amata, o la chiara mancanza di ogni vantaggio che ne deriva dal rapporto di amore. In questo ambito di realtà la società moderna sa ancora smentire alla propria identità e immagine e sa in qualche modo contraddire i propri vizi. La nostra cultura illuminista che ha imparato soprattutto a calcolare ogni cosa, che oggettivizza e quantifica ogni scambio e non concede più spazio al gratuito, al superfluo, all'inutile, si trova come spiazzata davanti a quella forza attrattiva che è l'amore, inteso come sorgente di ogni altra realtà e di ogni dinamica propria del vivere. È superfluo dire che l'amore può subire molte metamorfosi al negativo: può essere soltanto apparente riuscendo a camuffarsi sotto mille pretesti e a nascondere motivi inconfessabili, trincerandosi dietro a palliativi di ogni sorta, così come ad esempio un bacio può essere un gesto totale di partecipazione all'altro, ma può anche celare una piccola o una grande menzogna. Ma se l'amore nasce – come dovrebbe – da un profondo sentimento, non accetta compromessi e non teme la concorrenza delle motivazioni socio-culturali di protocollo. Non si ama per vantaggio, né per qualche cosa, né in rapporto alle proprie possibilità o in ordine a certi fini. Si ama e basta. La vita non soltanto non è finalizzata all'amore, ma fa tutt'uno con esso al punto che si può mettere in discussione la totalità delle proprie scelte, delle proprie decisioni e impegni, ma non si può mettere in discussione l'amore e il rapporto con un partner. La donna ha una funzione essenziale per la vita dell'uomo e non può non essere così. Che si tratti della ricerca del volto della madre, che si tratti di ritrovare la propria metà smarrita come nel mito di Platone, la donna resta per l'uomo il «grande desiderio» e la grande «calamita» che attira e sconvolge, che attrae e seduce, che porta a maturazione la persona umana e crea una svolta essenziale nella vita di una persona e viceversa l'uomo per una donna costituisce la chiave di svolta dell'intera esistenza.
Se la partenza di questo discorso sull'amore può essere considerata «idealistica», «romantica» e quasi «apriori» in quanto si finisce per soffiare su un fuoco di paglia o su un fuoco che sembra spento o in via di spegnimento totale nel momento in cui si esalta l'amore come espressione incondizionata e irripetibile della persona, si può cercare utilmente una fondazione psico-ontologica di questa realtà di fatto in un contesto fondamentale per il quale la persona umana è per definizione «aperta» al mondo, è un dialogo con il mondo e si costruisce soltanto in uno scambio con la realtà che la circonda e in particolare con un rapporto intersoggettivo da persona a persona, da uomo a donna, da donna a uomo in cui il mondo biologico trova complemento nel contesto psicologico e nella visione globale del vivere e dell'esistere, sfociando poi in una comprensione ontologica che riassume ogni altra prospettiva.
Per questo tragitto a cui voglio soltanto accennare ci viene in soccorso la fenomenologia della percezione umana, la prospettiva che si muove a piccoli passi osservando quel mondo in miniatura costituito dalla persona; mondo ovvio e scontato e tuttavia altamente significativo. Si tratta di quella realtà che scopre nella persona il lato radicalmente costitutivo del bisogno di comunicare e di «rapportarsi agli altri», coglie il senso della persona come «ponte gettato» sul mondo sapendo mostrare via via come ogni essere umano è un orizzonte di senso nella misura in cui comunica, si mette in rapporto con gli altri tramite il suo corpo, la sua gestualità, le sue movenze e con il linguaggio che incarna il suo mondo. Husserl e in particolare Merleau-Ponty ci offrono delle riflessioni importanti così come ad altri livelli - più attenti all'intero culturale - ci presentano riflessioni altrettanto valide A. Gehlen e H. Plessner.
Merleau-Ponty ci dice che il corpo contiene già questa apertura al mondo. Non è un caso che una delle tesi centrali della Fenomenologia della percezione si incentra sull'origine coiporale di tutte le formazioni «superiori» della coscienza, affermando che ogni coscienza è coscienza percettiva. Perciò se l'esistenza è indeterminata in sé a causa della sua struttura fondamentale, diventa via via determinabile attraverso il significato che le comunica il corpo con-il suo contatto diretto con la realtà. Senza dare spazio a dualismi, Merleau-Ponty arriva a dire che l'«identità», in ultima analisi, non è nient'altro che una caratteristica strutturale del campo percettivo. Per il filosofo francese la «dignità» della persona consiste pertanto nella realtà che la abita come corpo soggetto che trascende l'essere puramente naturale per un Sinn-geben, per un centro di 'riferimento capace di dare senso al mondo, secondo quella caratteristica che C. Taylor chiamerebbe significante feature. Noi sbagliamo tutto sulla persona umana quando ci atteniamo alla maniera oggettivista di comprendere, quasi sul modello delle macchine. Qui si afferma con chiarezza che «l'uomo è all'origine dei fatti, non è, un fatto o un insieme di fatti, ma piuttosto un essere che si crea e che crea il mondo dei fatti per il fatto semplice che vive nel mondo» (Dreyfus).
I fenomenologi hanno dunque insistito sul fatto che la persona è un «essere per» così come il corpo è un originario a cui riferisco tutte le mie esperienze: è l'asse di ogni riferimento. Ma la relazione che la persona instaura non è puramente atto di comunicazione, movimento verso l'altro: è l'espressione totale della ricchezza intenzionale di un essere che ha bisogno di trovare un «travaso» in un altro capace di comprendere, di partecipare, di vivere la mia stessa realtà. L'amore._ pertanto non appare come un momento superfluo o accessorio rispetto al mondo della comunicazione e della donazione, ma appare il momento più perfetto, più vero, quello che nasce da un «orientamento radicale verso», in cui una persona può finalmente ritrovarsi con tutta se stessa in un altro essere. Vivere è amare perché c'è nella persona umana un bisogno immenso di intersoggettività correlato alla propria situazione esistenziale; c'è il bisogno di guardare la realtà con lo sguardo dell'altro, di vivere il proprio mondo proiettandolo nello sguardo e nella realtà altrui. Se è vero che il significato si costruisce a partire da una comunità di soggetti, il «mio» significato esistenziale, la mia vita ha bisogno di essere convalidata e riconosciuta da una persona a cui mi dono totalmente e con la quale comunico in maniera piena e totale. E già la corporeità manifesta in modo inequivoco questo bisogno intersoggettivo intenzionale; il bambino ha un bisogno istintivo e imperioso delle carezze della madre, di sentire il corpo della madre accanto al suo: lo sguardo, il sorriso, il pianto, il gesto sono espressioni originarie del corpo che cerca corrispondenza e reciprocità nello sforzo sempre ripetuto di trovare conferma al proprio mondo.
Anche la stessa parola «esistere» tradisce la forte intenzionalità da cui è portata la persona umana e indica un movimento irrefrenabile verso l'altro da me. Ex-sistere è vivere «fuori» da se stessi, significa «tendere» verso l'altro, trovare se stessi soltanto nella relazione con un'altra persona. Appare chiaramente nella breve analisi accennata sopra che il piano esistenziale si sovrappone
piano ontologico e i due possono essere poi espressi in modo unitario senza dover ricorrere al concetto sempre alquanto difficile di «essere», che si pone sì a una profondità ulteriore, esprimendo il bisogno di amare con maggiore rigore logico, ma rischia di diventare un dire freddo e filosofico che non si incontra abbastanza con l'immediatezza della vita. Complementare all'ex-sistere è il concetto della persona come essere eccentrico di Plessner e Gehlen, per i quali la persona è se stessa quando esce da sé, esce dal centro per capirsi tramite il volto dell'altro. L'essere umano per trovare se stesso deve uscire da sé, deve incontrare l'altro, deve in qualche modo diventare altro da sé.
Se la partenza di questo discorso sull'amore può essere considerata «idealistica», «romantica» e quasi «apriori» in quanto si finisce per soffiare su un fuoco di paglia o su un fuoco che sembra spento o in via di spegnimento totale nel momento in cui si esalta l'amore come espressione incondizionata e irripetibile della persona, si può cercare utilmente una fondazione psico-ontologica di questa realtà di fatto in un contesto fondamentale per il quale la persona umana è per definizione «aperta» al mondo, è un dialogo con il mondo e si costruisce soltanto in uno scambio con la realtà che la circonda e in particolare con un rapporto intersoggettivo da persona a persona, da uomo a donna, da donna a uomo in cui il mondo biologico trova complemento nel contesto psicologico e nella visione globale del vivere e dell'esistere, sfociando poi in una comprensione ontologica che riassume ogni altra prospettiva.
Per questo tragitto a cui voglio soltanto accennare ci viene in soccorso la fenomenologia della percezione umana, la prospettiva che si muove a piccoli passi osservando quel mondo in miniatura costituito dalla persona; mondo ovvio e scontato e tuttavia altamente significativo. Si tratta di quella realtà che scopre nella persona il lato radicalmente costitutivo del bisogno di comunicare e di «rapportarsi agli altri», coglie il senso della persona come «ponte gettato» sul mondo sapendo mostrare via via come ogni essere umano è un orizzonte di senso nella misura in cui comunica, si mette in rapporto con gli altri tramite il suo corpo, la sua gestualità, le sue movenze e con il linguaggio che incarna il suo mondo. Husserl e in particolare Merleau-Ponty ci offrono delle riflessioni importanti così come ad altri livelli - più attenti all'intero culturale - ci presentano riflessioni altrettanto valide A. Gehlen e H. Plessner.
Merleau-Ponty ci dice che il corpo contiene già questa apertura al mondo. Non è un caso che una delle tesi centrali della Fenomenologia della percezione si incentra sull'origine coiporale di tutte le formazioni «superiori» della coscienza, affermando che ogni coscienza è coscienza percettiva. Perciò se l'esistenza è indeterminata in sé a causa della sua struttura fondamentale, diventa via via determinabile attraverso il significato che le comunica il corpo con-il suo contatto diretto con la realtà. Senza dare spazio a dualismi, Merleau-Ponty arriva a dire che l'«identità», in ultima analisi, non è nient'altro che una caratteristica strutturale del campo percettivo. Per il filosofo francese la «dignità» della persona consiste pertanto nella realtà che la abita come corpo soggetto che trascende l'essere puramente naturale per un Sinn-geben, per un centro di 'riferimento capace di dare senso al mondo, secondo quella caratteristica che C. Taylor chiamerebbe significante feature. Noi sbagliamo tutto sulla persona umana quando ci atteniamo alla maniera oggettivista di comprendere, quasi sul modello delle macchine. Qui si afferma con chiarezza che «l'uomo è all'origine dei fatti, non è, un fatto o un insieme di fatti, ma piuttosto un essere che si crea e che crea il mondo dei fatti per il fatto semplice che vive nel mondo» (Dreyfus).
I fenomenologi hanno dunque insistito sul fatto che la persona è un «essere per» così come il corpo è un originario a cui riferisco tutte le mie esperienze: è l'asse di ogni riferimento. Ma la relazione che la persona instaura non è puramente atto di comunicazione, movimento verso l'altro: è l'espressione totale della ricchezza intenzionale di un essere che ha bisogno di trovare un «travaso» in un altro capace di comprendere, di partecipare, di vivere la mia stessa realtà. L'amore._ pertanto non appare come un momento superfluo o accessorio rispetto al mondo della comunicazione e della donazione, ma appare il momento più perfetto, più vero, quello che nasce da un «orientamento radicale verso», in cui una persona può finalmente ritrovarsi con tutta se stessa in un altro essere. Vivere è amare perché c'è nella persona umana un bisogno immenso di intersoggettività correlato alla propria situazione esistenziale; c'è il bisogno di guardare la realtà con lo sguardo dell'altro, di vivere il proprio mondo proiettandolo nello sguardo e nella realtà altrui. Se è vero che il significato si costruisce a partire da una comunità di soggetti, il «mio» significato esistenziale, la mia vita ha bisogno di essere convalidata e riconosciuta da una persona a cui mi dono totalmente e con la quale comunico in maniera piena e totale. E già la corporeità manifesta in modo inequivoco questo bisogno intersoggettivo intenzionale; il bambino ha un bisogno istintivo e imperioso delle carezze della madre, di sentire il corpo della madre accanto al suo: lo sguardo, il sorriso, il pianto, il gesto sono espressioni originarie del corpo che cerca corrispondenza e reciprocità nello sforzo sempre ripetuto di trovare conferma al proprio mondo.
Anche la stessa parola «esistere» tradisce la forte intenzionalità da cui è portata la persona umana e indica un movimento irrefrenabile verso l'altro da me. Ex-sistere è vivere «fuori» da se stessi, significa «tendere» verso l'altro, trovare se stessi soltanto nella relazione con un'altra persona. Appare chiaramente nella breve analisi accennata sopra che il piano esistenziale si sovrappone
piano ontologico e i due possono essere poi espressi in modo unitario senza dover ricorrere al concetto sempre alquanto difficile di «essere», che si pone sì a una profondità ulteriore, esprimendo il bisogno di amare con maggiore rigore logico, ma rischia di diventare un dire freddo e filosofico che non si incontra abbastanza con l'immediatezza della vita. Complementare all'ex-sistere è il concetto della persona come essere eccentrico di Plessner e Gehlen, per i quali la persona è se stessa quando esce da sé, esce dal centro per capirsi tramite il volto dell'altro. L'essere umano per trovare se stesso deve uscire da sé, deve incontrare l'altro, deve in qualche modo diventare altro da sé.
Incontrare l'altro o della difficoltà di amare oggi
Sulla falsariga delle considerazioni espresse sopra, occorre ora fare un passo ulteriore e vedere come avviene oggi l'«incontro» con l'altro, come ci si rapporta all'alterità che è strettamente connessa con il vero atto d'amore e come si ottempera a quel precetto per il quale per essere pienamente se stessi occorre uscire totalmente dal proprio mondo, compiere un esodo, spossessarsi di sé in un grande potlach.
La cultura di oggi è essenzialmente egocentrica e contraddice fin nella sua essenza a ogni slancio d'amore, a ogni rapporto di donazione in cui si sia disposti a dare senza riserve. C'è un'ipoteca che grava su ogni apertura all'altro e che rischia di compromettere costantemente l'amore fin dal suo nascere. L'amore molto spesso è «frustrazione» per questa sua ambiguità e incommensurabile possibilità di ricaduta su se stesso. Tanto è forte il desiderio di amare e altrettanto grande è la frustrazione che nasce quando questo desiderio non trova la possibilità di ex-primersi, resta ,contratto, ritorna indietro in quanto trova nell'altro un muro che l'ostacola o trova in se stesso un'impossibilità di aprirsi e di donarsi. «L'inferno sono gli altri» diceva amaramente Sartre. Si tratta dell'esperienza dell'amore che fallisce, della donazione impossibile, della. reciprocità mancata. Il mondo in questo contesto appare allora inesorabilmente straziato, dissimmetrico e condannato alla divisione, mentre l'amore diventa affanno, defezione, disordine che coinvolge e condanna lo spirito oltre che oltraggiare i corpi.
Nell'amore occorre risolvere infatti il problema più profondo del nostro essere e del nostro esistere che è quello della «differenza». L'altro è anche il diverso da me, è irriducibile alla mia egoità e Mo riconoscimento comporta una mia rinuncia che tocca fin nelle viscere più profonde il mio ego. Amare significa dire: «tu sei tutto per me a tal punto che io non esisto se non per te e nella misura in cui tu mi permetti di ex-sistere». Significa riconoscere in definitiva la differenza come differenza al di sopra e al di là della mia identità. Che si interpreti l'amore secondo una concezione romantica, di tipo «unitivo» dell'amore, o si proponga oggi una concezione più personalistica di tipo «comunionale», non interessa molto al grande problema o meglio al «mistero» dell'amore. In definitiva, amare è un «olocausto», è compiere un grande sacrificio sull'altare del proprio io. Ora qui può nascere il momento d'estasi e di pienezza dell'amore, può nascere quella situazione privilegiata che ci fa gustare la bellezza e la grandezza del vivere in sintonia con l'altro o in una fusione che dalla persona amata si allarga fino a divenire una fusione «oceanica», «cosmica». Ma proprio a questo livello così alto e sublime, però, possono nascere anche delle difficoltà, possono incominciare le strategie di camuffamento e aver luogo le dissimulazioni, dovute all'impossibilità di accettare l'altro come altro, di compiere quel potlach di cui sopra. Si tratta, dunque, ancora una volta di una idealità che viene facilmente sconvolta o alméno neutralizzata nella nostra cultura con il rischio dr creare continuamente strappi strazianti, ponti bruciati, legami spezzati.
L'«altro» diventa allora il «tasto dell'impossibile» e l'incontro che doveva costituire il vero amore si traduce in una «scommessa perduta in un paese straniero», perché del tentativo di uscire da sé non resta che il ritrovarsi lontani dalle proprie origini senza avere scoperto una nuova terra. Di questa impossibilità di amare e di questo contraccolpo che rivela l'estrema miseria dell'uomo e la sua intima dissociazione si fanno interpreti i letterati, i poeti, gli scrittori, i registi, ma ne è in modo particolare testimone la vita di ogni giorno che deve mettere in conto le separazioni, gli abbandoni nell'amore, le tragedie, le gelosie, i tradimenti e tutta quella gamma di situazioni penose in cui si scopre a vivere l'uomo d'oggi. Quando si giunge a queste situazioni difficili tutto può diventare conflittuale e si possono mettere in atto le più sottili e diaboliche tecniche di aggressione nei confronti del partner intese a difendersi, a fingere, a far apparire quello che non è mai stato o non è più. Tra due persone che vivono in coppia può nascere ad esempio un rapporto da tiranno a suddito, configurazione bene descritta nella classica Fenomenologia dello spirito di Hegel, dove la forma di lotta non è il puro duello, ma una specie di lenta e inesorabile resa finale dei conti. Alla base di tutto vi è di solito un'arma di cui molti scrittori hanno già parlato: è lo sguardo. Guardare l'altro significa disorganizzarlo, poi fissarlo nel suo disordine, cioè mantenerlo nell'essere stesso della sua nullità con tutto ciò che segue, facendo insorgere in lui una crisi di identità che porta verso lo scacco, il fallimento, la tragedia.
Ma naturalmente questo non è di solito che l'esito di una catena di piccoli tiranneggiamenti e di lotte che continuano senza fine.
Occorre dire che vi possono essere anche tecniche di compromesso: fuggire, aspettare, compiangere, cercare una convivenza accettabile, cercare segni di riconoscimento anche là dove non" vi è traccia, sperare che avvenga una grazia, che abbia luogo un'illuminazione che permetta al partner di comprendere l'amore e di condividere la situazione. Le dinamiche sono infinite e si complicano ogni giorno di più tra chi vuole dare e chi non accetta di ricevere e viceversa.
La differenza che non viene accolta è iI vero luogo della sofferenza umana senza fine. Tanto è grande e bello l'amore e altrettanto grande è la sofferenza che sta dietro l'angolo quando si appanna, o anche si offusca appena quella luce solare che soltanto l'amore sa comunicare.
In ogni caso, l'ultimo stadio del paradosso dell'amore sta in quel fatto per il quale, quando finisce l'amore, si generano equivoci a catena e ogni sistema di comunicazione tra i due partner diventa immancabilmente duplice e totalmente ambiguo: oggetto di fiducia illimitata e nello stesso tempo causa di infiniti sospetti.
La cultura di oggi è essenzialmente egocentrica e contraddice fin nella sua essenza a ogni slancio d'amore, a ogni rapporto di donazione in cui si sia disposti a dare senza riserve. C'è un'ipoteca che grava su ogni apertura all'altro e che rischia di compromettere costantemente l'amore fin dal suo nascere. L'amore molto spesso è «frustrazione» per questa sua ambiguità e incommensurabile possibilità di ricaduta su se stesso. Tanto è forte il desiderio di amare e altrettanto grande è la frustrazione che nasce quando questo desiderio non trova la possibilità di ex-primersi, resta ,contratto, ritorna indietro in quanto trova nell'altro un muro che l'ostacola o trova in se stesso un'impossibilità di aprirsi e di donarsi. «L'inferno sono gli altri» diceva amaramente Sartre. Si tratta dell'esperienza dell'amore che fallisce, della donazione impossibile, della. reciprocità mancata. Il mondo in questo contesto appare allora inesorabilmente straziato, dissimmetrico e condannato alla divisione, mentre l'amore diventa affanno, defezione, disordine che coinvolge e condanna lo spirito oltre che oltraggiare i corpi.
Nell'amore occorre risolvere infatti il problema più profondo del nostro essere e del nostro esistere che è quello della «differenza». L'altro è anche il diverso da me, è irriducibile alla mia egoità e Mo riconoscimento comporta una mia rinuncia che tocca fin nelle viscere più profonde il mio ego. Amare significa dire: «tu sei tutto per me a tal punto che io non esisto se non per te e nella misura in cui tu mi permetti di ex-sistere». Significa riconoscere in definitiva la differenza come differenza al di sopra e al di là della mia identità. Che si interpreti l'amore secondo una concezione romantica, di tipo «unitivo» dell'amore, o si proponga oggi una concezione più personalistica di tipo «comunionale», non interessa molto al grande problema o meglio al «mistero» dell'amore. In definitiva, amare è un «olocausto», è compiere un grande sacrificio sull'altare del proprio io. Ora qui può nascere il momento d'estasi e di pienezza dell'amore, può nascere quella situazione privilegiata che ci fa gustare la bellezza e la grandezza del vivere in sintonia con l'altro o in una fusione che dalla persona amata si allarga fino a divenire una fusione «oceanica», «cosmica». Ma proprio a questo livello così alto e sublime, però, possono nascere anche delle difficoltà, possono incominciare le strategie di camuffamento e aver luogo le dissimulazioni, dovute all'impossibilità di accettare l'altro come altro, di compiere quel potlach di cui sopra. Si tratta, dunque, ancora una volta di una idealità che viene facilmente sconvolta o alméno neutralizzata nella nostra cultura con il rischio dr creare continuamente strappi strazianti, ponti bruciati, legami spezzati.
L'«altro» diventa allora il «tasto dell'impossibile» e l'incontro che doveva costituire il vero amore si traduce in una «scommessa perduta in un paese straniero», perché del tentativo di uscire da sé non resta che il ritrovarsi lontani dalle proprie origini senza avere scoperto una nuova terra. Di questa impossibilità di amare e di questo contraccolpo che rivela l'estrema miseria dell'uomo e la sua intima dissociazione si fanno interpreti i letterati, i poeti, gli scrittori, i registi, ma ne è in modo particolare testimone la vita di ogni giorno che deve mettere in conto le separazioni, gli abbandoni nell'amore, le tragedie, le gelosie, i tradimenti e tutta quella gamma di situazioni penose in cui si scopre a vivere l'uomo d'oggi. Quando si giunge a queste situazioni difficili tutto può diventare conflittuale e si possono mettere in atto le più sottili e diaboliche tecniche di aggressione nei confronti del partner intese a difendersi, a fingere, a far apparire quello che non è mai stato o non è più. Tra due persone che vivono in coppia può nascere ad esempio un rapporto da tiranno a suddito, configurazione bene descritta nella classica Fenomenologia dello spirito di Hegel, dove la forma di lotta non è il puro duello, ma una specie di lenta e inesorabile resa finale dei conti. Alla base di tutto vi è di solito un'arma di cui molti scrittori hanno già parlato: è lo sguardo. Guardare l'altro significa disorganizzarlo, poi fissarlo nel suo disordine, cioè mantenerlo nell'essere stesso della sua nullità con tutto ciò che segue, facendo insorgere in lui una crisi di identità che porta verso lo scacco, il fallimento, la tragedia.
Ma naturalmente questo non è di solito che l'esito di una catena di piccoli tiranneggiamenti e di lotte che continuano senza fine.
Occorre dire che vi possono essere anche tecniche di compromesso: fuggire, aspettare, compiangere, cercare una convivenza accettabile, cercare segni di riconoscimento anche là dove non" vi è traccia, sperare che avvenga una grazia, che abbia luogo un'illuminazione che permetta al partner di comprendere l'amore e di condividere la situazione. Le dinamiche sono infinite e si complicano ogni giorno di più tra chi vuole dare e chi non accetta di ricevere e viceversa.
La differenza che non viene accolta è iI vero luogo della sofferenza umana senza fine. Tanto è grande e bello l'amore e altrettanto grande è la sofferenza che sta dietro l'angolo quando si appanna, o anche si offusca appena quella luce solare che soltanto l'amore sa comunicare.
In ogni caso, l'ultimo stadio del paradosso dell'amore sta in quel fatto per il quale, quando finisce l'amore, si generano equivoci a catena e ogni sistema di comunicazione tra i due partner diventa immancabilmente duplice e totalmente ambiguo: oggetto di fiducia illimitata e nello stesso tempo causa di infiniti sospetti.
ll bello come attrazione, seduzione e a un tempo simbolo di trascendenza
Ma da dove nasce l'amore e perché è così alta la posta in gioco quando parliamo di amore? L'amore non ha una sua logica – ho osservato all'inizio –; ora devo dire che l'amore non ha neppure una sua carta di nascita, un documento di presentazione, uno statuto di riconoscimento. È l'essere attratti da qualche cosa che è nell'altra persona e che appare complementare, e indispensabile per la propria visione, per il proprio mondo, per sentirsi completi in quanto persona. L'amore – scriveva Hegel – è il «fiorire della vita». Ritorna il discorso intersoggettivo di fondo, anche se poi i movimenti che interagiscono per la realizzazione di questo incontro possono essere i più diversi e svariati. Gioca un ruolo importante il bello, il nobile, ciò che è elegante, la grazia, il fascino, anche l'apparenza corporea, l'aspetto fisico, le qualità morali, la dolcezza del viso, ecc. Tutto può attrarre semplicemente, irresistibilmente. È ciò che piace, ciò che ci appare come appagante per la vita, complementare al nostro modo di vivere e indispensabile per la nostra comunicazione e reciprocità; ci attrae ciò che ha bisogno di protezione; ciò che ci manda forti segnali di comunicazione affascina perché la vita si vede realizzata in un atto di comunicazione intensa. Non è possibile stabilire quale meccanismo subentri nell'innamoramento e nel primo amore. Gli occhi giocano certamente un ruolo molto importante, la simpatia è fondamentale ed è il primo movimento verso l'amore – come ha riconosciuto M. Scheler –mentre il fascino è come l'ultimo tocco di grazia. Ma chi è in grado di definire che cos'è il «fascino», lo "«charme»?
Lévi-Strauss descrive una corona di piume prodotta dai bororo nell'interno del Brasile fatta di piume di pappagallo blu e gialle come oggetto altamente capace di scatenare l'attrazione «fatale» tra i bororo stessi. La figura simmetrica e la vivacità dei colori sarebbero qualità scatenanti in rapporto all'interpretazione dell'oggetto del desiderio. La qualità di stimolo della costellazione che produce il momento dell'innamoramento e dell'amore è in realtà sempre qualche cosa di soggettivo, di percepito in proprio o forse è soltanto una proiezione esterna della propria realtà «incompleta» e «bisognosa».
Certo è che la nostra società è una società dell'immagine e della superficie, dell'apparenza, del messaggio e della seduzione. Ciò comporta spettacolarizzazione anche del bello e porta però conseguentemente anche a una inautenticità di fondo che non era presente in altri tempi. E il pericolo conseguente è che l'amore sia superficiale e passeggero tanto quanto lo è un colore, una moda, una collana o un maquillage.
In questo quadro gioca un ruolo fondamentale la seduzione. Sedurre vuol dire attrarre e nello stesso tempo sfuggire alla presa, creare un momento sdi incantamento senza restare al gioco per potersi riproporre ancora, all'indefinito; essere segno di attrazione pur restando lontani, di donazione pur riuscendo a sottrarsi allo scambio e alla reciprocità. Nel gioco di seduzione, infatti, la cosa più importante è creare una specie di doppio legame (double bounding), una sorta di effetto Albertine che naturalmente attrae di più perché il gioco di fingere, di concedersi e poi ritirarsi è molto «avvincente» nel senso etimologico del termine: incatena di più. In amore vince chi fugge, come sapeva bene Proust. Soprattutto se chi sa di essere oggetto di attenzione e attira, fugge e dà segno di arrendersi, si arrende e poi rifiuta di concedersi. C'è una strategia nell'amore e nella provocazione del desiderio dell'altro che non ha limiti e non ha mai fine. Ora proprio in questa dialettica del darsi e del sottrarsi, nel gioco simbolico della seduzione, vorrei vedere in maniera semplificata una metafora di una metafisica dell'amore umano: quell'infinito che non si lascia possedere perché non consente di scegliere. Quella ricerca della totalità che immancabilmente sfugge perché la perfezione non si fa prendere e svanisce appena la si tocca. La forza della seduzione è specchio di quel-movimento tra finito e infinito che ultimamente costituisce lo struggimento profondo di ogni persona umana aperta all'orizzonte del tutto e dunque capace di intuire la totalità dietro alla prospettiva, la pienezza dietro al particolare, la luce nel chiaroscuro degli eventi e dei sentimenti dell'anima, la nostalgia dell'infinito dietro a tutti i piccoli finiti terrestri che mai riescono a portare a saturazione e a compimento la persona umana.
Ma per comprendere questo procedimento ascensionale è necessario il superamento della differenza tra sensibile e intelligibile in quanto primaria appare la «tonalità affettiva» che resta in eccesso rispetto a ogni recupero nel razionale o nel trascendentale. Forse è troppo presto per parlare dell'Essere a partire dall'amore umano o forse troppo tardi per inabissarsi in quello che esso sembra promettere. Per il momento basta essere sensibili a questa scoperta dell'insuperabile e del non circoscrivibile, è sufficiente essere attenti a quel manque, alla negatività non mediabile che si inscrive nel cuore stesso della funzione del simbolico e che mostra come la coscienza – nel suo momento più esistenzialmente carico – si trova irrimediabilmente spostata, decentrata, in esilio in rapporto a se stessa.
Sappiamo del resto come una fenomenologia dell'amore umano abbia sbocchi diversi ad esempio in P. Ricoeur, in G. Marcel oin G. Bataille. Ma anche le «lacrime di eros» di Bataille sono sincere e non sono lacrime sparse invano sul versante di un recupero di una simbologia della, trascendenza. Si direbbe che anche l'eros espresso e drammaticamente sofferto fino allo spasimo da Bataille è ultimamente una cifra e un topos della teologia negativa: manifesta il bisogno quasi suicida di sopprimere tutte le forme temporali perché si dia la possibilità di, un vero amore liberato e liberante.
Lévi-Strauss descrive una corona di piume prodotta dai bororo nell'interno del Brasile fatta di piume di pappagallo blu e gialle come oggetto altamente capace di scatenare l'attrazione «fatale» tra i bororo stessi. La figura simmetrica e la vivacità dei colori sarebbero qualità scatenanti in rapporto all'interpretazione dell'oggetto del desiderio. La qualità di stimolo della costellazione che produce il momento dell'innamoramento e dell'amore è in realtà sempre qualche cosa di soggettivo, di percepito in proprio o forse è soltanto una proiezione esterna della propria realtà «incompleta» e «bisognosa».
Certo è che la nostra società è una società dell'immagine e della superficie, dell'apparenza, del messaggio e della seduzione. Ciò comporta spettacolarizzazione anche del bello e porta però conseguentemente anche a una inautenticità di fondo che non era presente in altri tempi. E il pericolo conseguente è che l'amore sia superficiale e passeggero tanto quanto lo è un colore, una moda, una collana o un maquillage.
In questo quadro gioca un ruolo fondamentale la seduzione. Sedurre vuol dire attrarre e nello stesso tempo sfuggire alla presa, creare un momento sdi incantamento senza restare al gioco per potersi riproporre ancora, all'indefinito; essere segno di attrazione pur restando lontani, di donazione pur riuscendo a sottrarsi allo scambio e alla reciprocità. Nel gioco di seduzione, infatti, la cosa più importante è creare una specie di doppio legame (double bounding), una sorta di effetto Albertine che naturalmente attrae di più perché il gioco di fingere, di concedersi e poi ritirarsi è molto «avvincente» nel senso etimologico del termine: incatena di più. In amore vince chi fugge, come sapeva bene Proust. Soprattutto se chi sa di essere oggetto di attenzione e attira, fugge e dà segno di arrendersi, si arrende e poi rifiuta di concedersi. C'è una strategia nell'amore e nella provocazione del desiderio dell'altro che non ha limiti e non ha mai fine. Ora proprio in questa dialettica del darsi e del sottrarsi, nel gioco simbolico della seduzione, vorrei vedere in maniera semplificata una metafora di una metafisica dell'amore umano: quell'infinito che non si lascia possedere perché non consente di scegliere. Quella ricerca della totalità che immancabilmente sfugge perché la perfezione non si fa prendere e svanisce appena la si tocca. La forza della seduzione è specchio di quel-movimento tra finito e infinito che ultimamente costituisce lo struggimento profondo di ogni persona umana aperta all'orizzonte del tutto e dunque capace di intuire la totalità dietro alla prospettiva, la pienezza dietro al particolare, la luce nel chiaroscuro degli eventi e dei sentimenti dell'anima, la nostalgia dell'infinito dietro a tutti i piccoli finiti terrestri che mai riescono a portare a saturazione e a compimento la persona umana.
Ma per comprendere questo procedimento ascensionale è necessario il superamento della differenza tra sensibile e intelligibile in quanto primaria appare la «tonalità affettiva» che resta in eccesso rispetto a ogni recupero nel razionale o nel trascendentale. Forse è troppo presto per parlare dell'Essere a partire dall'amore umano o forse troppo tardi per inabissarsi in quello che esso sembra promettere. Per il momento basta essere sensibili a questa scoperta dell'insuperabile e del non circoscrivibile, è sufficiente essere attenti a quel manque, alla negatività non mediabile che si inscrive nel cuore stesso della funzione del simbolico e che mostra come la coscienza – nel suo momento più esistenzialmente carico – si trova irrimediabilmente spostata, decentrata, in esilio in rapporto a se stessa.
Sappiamo del resto come una fenomenologia dell'amore umano abbia sbocchi diversi ad esempio in P. Ricoeur, in G. Marcel oin G. Bataille. Ma anche le «lacrime di eros» di Bataille sono sincere e non sono lacrime sparse invano sul versante di un recupero di una simbologia della, trascendenza. Si direbbe che anche l'eros espresso e drammaticamente sofferto fino allo spasimo da Bataille è ultimamente una cifra e un topos della teologia negativa: manifesta il bisogno quasi suicida di sopprimere tutte le forme temporali perché si dia la possibilità di, un vero amore liberato e liberante.
L'amore come slancio e come pulsione di morte
La dialettica dell'amore è la dialettica e la dinamica della vita stessa. Occorre riflettere ancora un poco sulle nostre tesi di partenza.
La cultura contemporanea si trova come di fronte a un bivio quando invoca ancora la forza dell'amore, si trova di fronte all'ambivalenza della vita e della morte, di eros e thanatos e spetta agli attori e ai protagonisti del mondo di oggi favorire una tendenza piuttosto che l'altra.
Una delle caratteristiche di spicco dell'amore è che esso appartiene ai giovani, trova la sua fioritura maggiore e più bella negli anni della gioventù e va a braccetto con le utopie, i sogni, le fantasie, e spesso anche con i drammi della vita. E una forza «totale» davanti alla quale nessun'altra forza può avere il sopravvento.
Viceversa, si può osservare come ogni amore tende a renderci più giovani, più generosi, più aperti verso la vita; meno tesi, meno introversi, meno preoccupati del domani, meno avidi, meno desiderosi di accumulare capitale, perché il vero capitale sta già nelle nostre mani: è il sorriso e la grazia della persona che amiamo. L'amore rende unitaria la vita, dà un significato altissimo alla propria esistenza e pone in una condizione ottimale per capire gli altri. È slancio, è movimento, secondo quelle osservazioni iniziali per cui riconoscevamo come caratteristica fondamentale dell'amore il suo essere «tensione per».
Ora, nella società di oggi la scarsità di amore si coniuga con i pochi slanci che dimostrano i giovani d'oggi, con quella apatia -e abulia quasi congenita da cui essi, i veri protagonisti della vita culturale di domani, si lasciano soggiogare. Domina oggi forte l'im-pulso di morte, quella forza che dissolve e slega le energie invece di accumularle: l'entropia dei sentimenti è un chiaro segno della perdita di contatto con il mondo del vissuto umano. Anche quello stato di soddisfazione e di benessere diffuso per cui si può avere nella vita quasi tutto a poco prezzo non giova all'amore che vive solo là dove si è in grado di compiere sacrifici a favore degli altri e si lotta per ideali e valori, e favorisce irrimediabilmente un'inerzia che conduce alla sterilità del vivere. Non spinge di certo a quella Unruhigkeit, quella «inquietudine» definibile come non coincidenza con se stessi, che è all'origine stessa dell'amore e che è lo stato fondamentale atto a dare impulso per cercare «altrove» e «ancora». Ora la «coazione a ripetere» non è che la faccia più esterna di questo «istinto di morte» che domina la nostra cultura e che si pone in netta contraddizione con l'inquietudine vera, la ricerca, la speranza grande e profonda che può nascere soltanto là dove c'è ancora uno spazio per l'invocazione. In una situazione così passiva, in cui si dà forfait di ogni forza interiore capace di ispirare un vero slancio d'amore, non si fa che preparare la strada alla realizzazione di quel progetto di totale «addormentamento» della storia e della vita degli uomini previsto e annunciato in maniera allarmante da F. Fukuyama nel libro La fine della storia e l'ultimo uomo.
Si va delineando una situazione in cui l'amore viene sempre più sostituito dal sesso, più semplice a raggiungersi e più facile a consumarsi, rinunciando in tal modo a creare nuove spinte e nuove dinamiche. Il sale sta diventando insipido.
La cultura contemporanea si trova come di fronte a un bivio quando invoca ancora la forza dell'amore, si trova di fronte all'ambivalenza della vita e della morte, di eros e thanatos e spetta agli attori e ai protagonisti del mondo di oggi favorire una tendenza piuttosto che l'altra.
Una delle caratteristiche di spicco dell'amore è che esso appartiene ai giovani, trova la sua fioritura maggiore e più bella negli anni della gioventù e va a braccetto con le utopie, i sogni, le fantasie, e spesso anche con i drammi della vita. E una forza «totale» davanti alla quale nessun'altra forza può avere il sopravvento.
Viceversa, si può osservare come ogni amore tende a renderci più giovani, più generosi, più aperti verso la vita; meno tesi, meno introversi, meno preoccupati del domani, meno avidi, meno desiderosi di accumulare capitale, perché il vero capitale sta già nelle nostre mani: è il sorriso e la grazia della persona che amiamo. L'amore rende unitaria la vita, dà un significato altissimo alla propria esistenza e pone in una condizione ottimale per capire gli altri. È slancio, è movimento, secondo quelle osservazioni iniziali per cui riconoscevamo come caratteristica fondamentale dell'amore il suo essere «tensione per».
Ora, nella società di oggi la scarsità di amore si coniuga con i pochi slanci che dimostrano i giovani d'oggi, con quella apatia -e abulia quasi congenita da cui essi, i veri protagonisti della vita culturale di domani, si lasciano soggiogare. Domina oggi forte l'im-pulso di morte, quella forza che dissolve e slega le energie invece di accumularle: l'entropia dei sentimenti è un chiaro segno della perdita di contatto con il mondo del vissuto umano. Anche quello stato di soddisfazione e di benessere diffuso per cui si può avere nella vita quasi tutto a poco prezzo non giova all'amore che vive solo là dove si è in grado di compiere sacrifici a favore degli altri e si lotta per ideali e valori, e favorisce irrimediabilmente un'inerzia che conduce alla sterilità del vivere. Non spinge di certo a quella Unruhigkeit, quella «inquietudine» definibile come non coincidenza con se stessi, che è all'origine stessa dell'amore e che è lo stato fondamentale atto a dare impulso per cercare «altrove» e «ancora». Ora la «coazione a ripetere» non è che la faccia più esterna di questo «istinto di morte» che domina la nostra cultura e che si pone in netta contraddizione con l'inquietudine vera, la ricerca, la speranza grande e profonda che può nascere soltanto là dove c'è ancora uno spazio per l'invocazione. In una situazione così passiva, in cui si dà forfait di ogni forza interiore capace di ispirare un vero slancio d'amore, non si fa che preparare la strada alla realizzazione di quel progetto di totale «addormentamento» della storia e della vita degli uomini previsto e annunciato in maniera allarmante da F. Fukuyama nel libro La fine della storia e l'ultimo uomo.
Si va delineando una situazione in cui l'amore viene sempre più sostituito dal sesso, più semplice a raggiungersi e più facile a consumarsi, rinunciando in tal modo a creare nuove spinte e nuove dinamiche. Il sale sta diventando insipido.
Nuovo esercizio d'amore: «costruire un noi all'interno del quale la coscienza si ponga come relazione di me per te e di te per me» (G. Madinier)
Il capitolo sull'amore umano potrebbe essere lungo quanto l'intera storia dell'umanità e potrebbe essere abbreviato e racchiuso in poche'parole. In quest'ultimo paragrafo cerco la chiusura del cerchio, guardo alla realizzazione vera dell'amore proponendo la tematica breve ma profonda del filosofo francese Madinier. Amare significa «costruire un noi all'interno del quale la coscienza si pone come' relazione di me per te e di te per me». Alla fine di questabreve fenomenologia dell'amore umano credo infatti che sia inevitabile una proposta e un progetto di significato dell'amore che sia anche a sfondo deontologico e programmatico. Anche una riflessione fenomenologica, infatti, dà luogo al nascere di un'invocazione e di una richiesta.
È vero, soltanto chi ha amato intensamente sa che cosa significa amare. L'amore non si può insegnare. È come voler far capire a un cieco nato il senso dei colori. Siamo un po' tutti ciechi oggi in questo cammino verso l'amore, la donazione, verso la realtà dell'altro.
Però occorre riconoscere anche che questa appare l'ora più generosa che si offre a un vero pensiero e a un nuovo sapere circa l'amore perché la consapevolezza della propria miseria è un vantaggio e un guadagno incalcolabile in rapporto a tutti i propri mali.
La deontologia dell'amore umano richiede non una facciata nuova, ma un rifacimento dell'edificio intero. Occorre pazientemente é -lentamente ricreare un'immagine di uomo che possa comprendersi come dono, scoprirsi nella reciprocità, nella trasparenza della «mia» coscienza di fronte alla «.tua» e viceversa. Bisogna abbandonare la cultura degli specchi, riflessione ripetuta, narcisistica quanto inutile di se stessi, dove diventiamo tanti «oggetti sacri» che si dilettano del proprio io e si adorano segretamente. Occorre incominciare ad andare incontro agli altri, fase fondamentale e irrinunciabile di ogni comunicazione profonda e di ogni vero amore. Per colmare la «differenza» tra me e l'altro occorre un paziente lavoro «controculturale» di rinuncia a se stessi e di immedesimazione nell'altro, nell'umanità dell'altro che è poi la mia umanità «condivisa» e «partecipata».
Forse, anche dal punto di vista umano, per ritrovare l'amore non resta che meditare profondamente sulle pagine del vangelo, dato che in amore come nella vita in genere – secondo quanto annotava V. Frankl – «non si può insegnare un nuovo significato, ma si può solo vivere un significato che sia di esempio agli altri».
È vero, soltanto chi ha amato intensamente sa che cosa significa amare. L'amore non si può insegnare. È come voler far capire a un cieco nato il senso dei colori. Siamo un po' tutti ciechi oggi in questo cammino verso l'amore, la donazione, verso la realtà dell'altro.
Però occorre riconoscere anche che questa appare l'ora più generosa che si offre a un vero pensiero e a un nuovo sapere circa l'amore perché la consapevolezza della propria miseria è un vantaggio e un guadagno incalcolabile in rapporto a tutti i propri mali.
La deontologia dell'amore umano richiede non una facciata nuova, ma un rifacimento dell'edificio intero. Occorre pazientemente é -lentamente ricreare un'immagine di uomo che possa comprendersi come dono, scoprirsi nella reciprocità, nella trasparenza della «mia» coscienza di fronte alla «.tua» e viceversa. Bisogna abbandonare la cultura degli specchi, riflessione ripetuta, narcisistica quanto inutile di se stessi, dove diventiamo tanti «oggetti sacri» che si dilettano del proprio io e si adorano segretamente. Occorre incominciare ad andare incontro agli altri, fase fondamentale e irrinunciabile di ogni comunicazione profonda e di ogni vero amore. Per colmare la «differenza» tra me e l'altro occorre un paziente lavoro «controculturale» di rinuncia a se stessi e di immedesimazione nell'altro, nell'umanità dell'altro che è poi la mia umanità «condivisa» e «partecipata».
Forse, anche dal punto di vista umano, per ritrovare l'amore non resta che meditare profondamente sulle pagine del vangelo, dato che in amore come nella vita in genere – secondo quanto annotava V. Frankl – «non si può insegnare un nuovo significato, ma si può solo vivere un significato che sia di esempio agli altri».
NOTA BIBLIOGRAFICA
J. GUITTON, Saggio sull'amore umano, Morcelliana, Brescia 1954;
J. LACROIX, Personne et amour, Seuil, Parigi 1955;
V. SOLOV'EV, Due saggi sulla filosofia dell'amore, Signorelli, Roma 1939;
E. FROMM, L'arte di amare, il Saggiatore, Milano 1974;
R. BODEI, Ordo amoris, il Mulino, Bologna 1991;
D. DE ROUGEMONT, L'amour et l'occident, Plon, Parigi 1956;
G. MADINIER, Coscienza e giustizia, Giuffré, Milano 1973;
V. MELCHIORRE, Metacritica dell'eros, Vita e Pensiero, Milano 1977;
IDEM, Corpo e persona, Marietti, Genova 1987;
R. NEBULONI, Amore e etica. Idee per la fondazione dell'etica, Borla, Roma 1992;
M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965;
P. RICOEUR, Finitudine e colpa, il Mulino, Bologna 1970;
E. HUSSERL, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, I, Nijhoff, Den Haag 1973;
G. BATAILLE, Le lacrime di Eros, Arcana, Roma 1979;
A. GEHLEN, L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983.
J. LACROIX, Personne et amour, Seuil, Parigi 1955;
V. SOLOV'EV, Due saggi sulla filosofia dell'amore, Signorelli, Roma 1939;
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G. MADINIER, Coscienza e giustizia, Giuffré, Milano 1973;
V. MELCHIORRE, Metacritica dell'eros, Vita e Pensiero, Milano 1977;
IDEM, Corpo e persona, Marietti, Genova 1987;
R. NEBULONI, Amore e etica. Idee per la fondazione dell'etica, Borla, Roma 1992;
M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965;
P. RICOEUR, Finitudine e colpa, il Mulino, Bologna 1970;
E. HUSSERL, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, I, Nijhoff, Den Haag 1973;
G. BATAILLE, Le lacrime di Eros, Arcana, Roma 1979;
A. GEHLEN, L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983.
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